di Giuseppe Rissone Giuseppe Rissone
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Con notevole fantasia, una microstoria che risale alla mia infanzia, una fase poco colorata a poco vissuta.
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Torino, 1967… Non ho mai capito chi decide i colori da dare alle automobili, scuri, pallidi, colori che non sono colori. M’immagino un omino dentro una stanza che disegna automobili dai colori vivaci, allegri, con l’aggiunta di fiori, di stelle. Sono certo che tutte le sue idee vengono cestinate, rifiutate con decisione dai grandi capi, che essendo grigi loro non sopportano nulla che abbia la gioia del colore. Anche mio papà possiede un’automobile di color grigio, grigio… spento, molto spento, la forma assomiglia a una palla sgonfia che ha perso al sua rotondità prendendo la forma ovale.
Mio papà non guida quasi mai, salvo le uscite che facciamo per tornare al suo paese d’origine, per il resto dei giorni l’automobile rimane ferma davanti al nostro portone di casa.
Scusatemi, non mi sono presentato, sono Giorgio Barboni, ho sette anni compiuti e frequento la seconda elementare, ho una sorella di undici anni, Lucia, e un fratello di 17, Fabrizio… e naturalmente una mamma e un papà, Bruna di 46 anni, Silvestro di 57. E poi per chiudere il quadretto famigliare, la zia Ernestina, di 66 anni, sorella di mio papà.
La mia famiglia è completata da un gatto, un pesciolino e un canarino, gli ultimi due di proprietà di mia zia Ernestina, il pesce si chiama Rosso, il canarino ha avuto la cattiva sorte di essere battezzato Gianni Morandi, il gatto si chiama Berto. Abito in una grande città, anche se io vivo in un quartiere periferico, dimenticato e polveroso, alcune strade non sono nemmeno asfaltate.
La mia scuola è un edificio prefabbricato basso e lungo, costruito per assorbire i nuovi abitanti del quartiere, stipati in case altissime che sembrano fatte di cartapesta, facciamo addirittura i doppi turni, ovvero una settimana al mattino e una al pomeriggio. Entriamo maschietti e femminucce dallo stesso cancello, ma poi ci dividiamo, loro nel grembiulino bianco, con fiocco azzurro a sinistra, noi con grembiule nero, fiocco azzurro e fastidiosissimo colletto rigido bianco, a destra, molti anni più tardi, esattamente in prima media, incontrare l’altro sesso fu uno choc tremendo, da cui non mi sono mai ripreso… In classe siamo in trentuno, la maestra forse pesa più di noi messi insieme, quando si muove, pavimenti e pareti tremano, quasi come se temessero il suo agire.
Il mio passatempo preferito è andare sul balcone del tinello e osservare tutto quello che accade, dai gatti che passeggiano sui tetti dei garage e delle officine, dal padrone di casa che sale sugli alberi a raccogliere i pochi frutti che essi gli donano, alle case costruite in tutta fretta, chiamate chissà poi perché case popolari, oppure l’enorme prato che a turno diventa luogo di sosta per circhi e luna park e in altre occasioni speciali diventa un campo da calcio, per ospitare sfide tra squadre nate solo per l’occasione. Altre volte il balcone diventa un mio personalissimo circo oppure un cantiere dove “costruisco” quello che mi passa per la testa, in altre occasioni guardo e copio i muratori che costruiscono tre grandi case a pochi metri dalla mia.
Abito al 4° e ultimo piano di una casa che sembra una torta al maraschino, colpevoli i colori dei muri e degli infissi. Non ho altro da raccontarvi, in quella casa e in quel quartiere non accadeva nulla di particolare menzione, ho vissuto con la mia famiglia in quelle strade sino al 1984, dopo inizia un’altra storia…
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Le Microstorie ritornano mercoledì 13 ottobre
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