di Enea Solinas
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Articolo pubblicato il 10 ottobre 2022 e scelto dall’autore per la riproposta estiva
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Un festival anomalo, che dal particolare riflette sul contemporaneo, facendo Storia
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Benvenuti in questa nuova rubrica, il Piccolo diario di portineria, che intende testimoniare e riflettere sugli incontri, le relazioni, le attività e proposte della rete di Portinerie di comunità, azioni promosse dallo Spaccio di cultura, a cura della Rete Italiana Di Cultura Popolare.
E proprio di testimonianze e riflessioni riguarda e ripensa con gratitudine questo primo episodio. Si è infatti da pochi giorni concluso il festival delle piccole storie, giunto alla terza edizione, che come ogni anno allarga lo sguardo e apre prospettive a partire dalle storie e testimonianze di vita personali, intrecciandole con i temi e la Storia cin cui siamo immersi oggigiorno. Quattro temi: identità di genere, guerre e rifugiati, salute mentale, infanzia e comunità educante. Per ogni tema diversi incontri nelle scuole di vario ordine e grado delle circoscrizioni 1, 3 e 7 – della Città di Torino – là dove si collocano i presidi dello Spaccio di cultura, le portinerie appunto. E dopo il coinvolgimento delle classi, degli incontri in diretta radio (recuperabili qui in podcast) che allargano il contenuto narrativo delle testimonianze a dialoghi e riflessioni offerte in uno spazio di agorà, culturale e politico, nel quale il confronto pacato, la partecipazione, la voglia di lasciarsi contagiare con rispetto dalle parole di ciascheduno e alimentare proponimenti e azioni è concreta e non relegata ai salotti e alle aule accademiche piuttosto che al confuso chiacchiericcio degli influencer grandi e piccoli del mondo virtuale.
Una condivisione e una partecipazione empatica, ricettiva del sentire dell’altro, che ha fatto scorgere l’importanza dei nessi tra le piccole storie di ciascheduno (impregnate dal flusso della grande Storia) e pongono sotto diversa angolazione la stessa contemporaneità, frutto non della retorica di chi afferma un dominio, anche in termini culturali e di narrazione egemone.
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Un festival resistente e rigenerante, capace di sedimentare segni di riconoscimento ed emancipazione. Che sa ha saputo e sa in modo non conforme tessere legami sociali e fare delle questioni personali, argomentazioni più ampie e non personalistiche. Relativizzare mediante il dialogo e l’ascolto i propri pregiudizi, le proprie conoscenze (e le proprie ignoranze!), riuscendo a condividere un tempo liberato ma che ci richiama – vieppiù in tempi politicamente infami e dissestati come quelli attuali – ad una comune corresponsabilità nell’avere cura di questa cultura e tessitura che procede nelle situazioni dal vivo, stando insieme, sentendo e condividendo gioie e dolori, entusiasmi e timori.
È suggestivo riascoltando i podcast percepire come il festival sia lievitato di giorno in giorno, impastando e amalgamando differenze e prossimità, divergenze e convergenze impreviste.
A suggellare il festival anche un mentore che provoca e sferza ancora: Pier Paolo Pasolini, con la riproposizione aggiornata dei comizi d’amore, che ripescano la sfida dei tabù sessuali, sentimentali e di condizione fragile, umana, spesso adombrando il discrimine più palese ma più censurato e autocensurato: la differenza di ceto e di potere economico, vero grande marchio infausto di demarcazione e di omologazione che ci rende contaminati da questa pretesa di essere inadeguati o indegni perché non a livello degli standard dettati dal libero mercato.
Di semi il festival ne ha lanciato diversi, il terreno era fertile e fuori dalla logica dei “grandi numeri” e “Grandi Eventi”. Si poterebbe chiosare che è stato un festival che ha innescato intenti culturali che procedono “a brulichio” e non “a schidionata”. Che percorrono vie collaterali, disegnano incroci, inciampi, confronti non esaustivi. Ripromettono tempo e rilanciano forme di resistenza e di partecipazione. Senza trascurare la specificità soggettiva delle storie individuali, il loro portato emotivo, sentimentale, affettivo e anche immaginifico. Perché aprono anche all’immaginazione di reciprocità e possibilità, pur con i limiti di cui il vivere e convivere deve pur tener conto.
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Foto Libreria Belgravia
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