di Enea Solinas Enea Solinas
Il senso di appartenenza rafforza legami, o li fa implodere. La memoria collettiva è una sintesi imperfetta di memorie diverse, in divenire.
Questa rubrica nasce in reazione al periodo di isolamento e distanziamento sociale cominciato con il lockdown. Ed è una mia personale reazione, voler riflettere a partire da certe considerazioni, cercando di non scadere nello sfogo emotivo. Lasciar trasparire le emozioni che portano alla scrittura e ruotare attorno al tema delle comunità, in modo laterale, durante un periodo storico che ha visto crescere le difficoltà e le disparità sociali e il senso di frammentazione.
Che sia una sensazione soggettiva e più che imperfetta o un sentire comune (o l’una e l’altra cosa), questo non senza difficoltà – induce ad una diversa arte della resistenza, che è un insieme complementare e duale di calma e inquietudine, vita vissuta nell’istante presente e conservazione dei ricordi, soppesandone il riverbero.
Una delle prassi e delle motivazioni a costituire senso di comunità, a sentirsi parte, insieme alla continuità di relazione è la conservazione mediata delle memorie. Mediata dal proprio settile presente, e da linguaggi espressivi, in particolare la narrazione scritta, depositata sull’antica e ancora attuale carta e penna. Con una attenzione che non si può dare per scontata.
La nostra memoria è duttile, cambia come il clima. È un climax: il nostro stato d’animo, la nostre sensazioni e percezioni variano, e così si modula l’attivarsi della memoria stessa. Che però può essere educata e veicolata, aprendosi alle molteplici sfaccettature di sé e della disponibilità a relazionarsi con gli altri.
Aggiungo una sottolineatura, ed è mia personale opinione, è che il bello è quando diversi modi di sentire producono un diverso approccio e intento nei confronti del ricordare e si dissociano dalle tendenze a riconoscersi in un ristretto senso di appartenenza, quasi fosse che lo stare insieme in una comunità fosse l’abitare e il vestire un uniforme. Sia essa generazionale, ideologica, di moda, di linguaggio comune, eccetera.
Le comunità sono vieppiù resistenti se rafforzano i legami sottolineando le differenti personalità e opinioni, oltre ai personalissimi e unici ricordi che sono come sguardi gettati sulla propria vita. Talvolta, sguardi divergenti sporti con discrezione su medesimi accadimenti. Quasi a comporre un mosaico nel quale ogni piccola pietruzza o scaglia vitrea è unica e libera di rappresentare e nominarsi partecipando all’arte del racconto con la propria soggettiva storia personale.
Le comunità che praticano questa condivisione sono quelle che mi hanno nutrito maggiormente e ampliato gli orizzonti, lungo un cammino che oggi guarda con più curiosità e benevolenza alle differenti comunità che resistono. Queste cronache son un invito implicito alla non subordinazione verso un’omologazione che condiziona le persone a ridursi a imbelli e supini consumatori e produttori di input.
Intendo dire che non è semplicemente un fatto subconscio, o pulsionale. Seppur carico di imprevedibilità è allo stesso tempo pregno d’intenzionalità. Ci si approssima ai propri ricordi non per scoprire reconditi segreti della storia collettiva, ma per testimoniare la vicinanza o la distanza dagli eventi, relativizzare il proprio coinvolgimento trovando un limite e una definizione proprio in virtù dell’esistenza della comunità che coltiva le differenze di memorie e di racconto.
La condivisione è transitoria, è un invito ad accogliere e ad accorgersi dell’impermanenza degli istanti, facendone tesoro e non scheggia abbandonata, rimbalzo frutto di impulsività. Anche in questo senso, è una forma implicita e indiretta di educazione, che dà per acquisito l’inconscio e lo esprime mediandolo con il proprio essere parte, che è cosa diversa dall’appartenere. È una vocazione alla non proprietà esclusiva dei beni materiali e immateriali.
Dei racconti si condivide la semina oltre che il raccolto, ci si ritrova e non esiste un solo mietitore. Anche se inevitabilmente ciascuno “torna a sé” e fa i conti con ciò che unicamente gli è proprio.
Mi concentrerò sulla metafora della mietitura e delle sue risonanze semantiche nel prossimo episodio delle cronache del dopo virus.
Il virus ci ha messo alla prova. Intendendo il SarsCov-2, che nel frattempo non è passato, ha trovato le sue variabili e varianti, i suoi adattamenti e ha acceso e talvolta concentrato su di sé le attenzioni su un fenomeno sociale e naturale. Pervasivo e invisibile, che ha portato e sta avendo molti condizionamenti nelle nostre vite quotidiane. Ma come ogni parola ha anch’esso una valenza metaforica. Di agente di contagio e di influenza che muta. Ma anche di ospite, che cambia trasmigrando di organismo in organismo. Qualcosa di analogo avviene nelle comunità, nelle quali si mette in comune qualcosa, una sfumatura, un frammento, un ricordo di sé. Una battuta, un gesto, uno sguardo che devia o si sofferma. Esso ci ricorda volendone fare una lettura panteistica ed ecologica insieme, che siamo ospiti (nel doppio senso del termine) dell’ambiente. Inteso sia come natura che come società. Dunque la cultura dovrebbe saper cogliere e avere cura di queste differenze e alterità. Senza pretendere miracoli, ma agendo nel migliore dei modi (im)possibili. Conservando una certa venatura idealistica, che azzarda l’illusorietà del fare i conti con la realtà concreta, vi s’immerge, talvolta, s’impasta, vi si amalgama.
Vale per la pandemia, come per altri eventi di portata storica, come quello che stiamo vivendo in queste settimane nel quella le vicende belliche s’intrecciano alle possibilità e le speranza diplomatiche, alle numerose riflessioni di stampo geopolitico e storico. Le quali ci interrogano su quali scelte compiere in materie di competenza di governo nel quale ciascuno è direttamente o indirettamente implicato. Anche il governo – e l’esercizio responsabile di un sovranità popolare, che è cosa ben distinta dall’ideologia sovranista – è un insieme che sfugge, nell’accelerarsi delle notizie della comunicazione, nel dissiparsi o allentarsi di legami difficili da tenere presente. Abituati, troppe volte, a considerarci come individui a se stanti e non parte di una collettività che è a sua volta come succitato insieme di comunità molto differenti le une dalle altre.
Per ragioni storiche, ideologiche, culturali, la nostra civiltà occidentale ha sempre fatto leva sul riconoscimento delle alterità, non di rado questo è stato possibile mediante il conflitto e la sua mediazione, la propensione al compromesso che non escluda o aggravi le disparità tra chi è socialmente più agiato e chi è più svantaggiato. Per conflitto, non però intendo infatti una forma aggressiva armata. Se mai un attivismo consapevole e non violento.
La memoria lascia tracce, cicatrici presenti e consapevolezze che da qualche parte abitano scheletri o sono nascoste delle asce di guerra. Segni che ci ricordano che non tutto ciò che agiamo diciamo pensiamo è sempre capace di non-ferire (questo è la traduzione più letterale della parola sanscrita all’origine della non-violenza). Potremmo tradurla anche con in-nocenza, il non nuocere. Siamo imperfetti e ci nuociamo talvolta facendo male a noi stessi e molte altro addossando qualche demerito al prossimo.
Queste tracce a volte sono indicibili e trascrivibili sono con una mediazione privata come quella per esempio della scrittura autobiografica. Altre volte si può trovare la voce sbloccandosi e sciogliendo certi nodi, accogliendo emozioni ferite che sgorgano per richiamarci al riparo e fare ancora più attenzione. Tacerle e resistere stoicamente è atto di coraggio… ricordarle e risignificarle è atto vieppiù coraggioso, come spargere sale curativo che disinfetta ma fa bruciare la ferita (avvertita o agita).
Altri silenzi sono urlati e tentano di alludere all’indicibile in modo scomposto un azzardo che assorda o azzittisce le voci più deboli. Anche le voci che in noi stessi fanno più fatica ad emergere. La memoria singolare, pur essendo parte di un tutto composito, è anch’essa plurale e sfaccettata, e una sua qualità è quello di tener presente questa moltitudine di istanze, stati d’animo, variabili, contraddizioni. Ritesserne e rammendare i pezzi è operazione che da sollievo e non fa cadere nell’oblio ciò che ci è stato prezioso sentire e apprendere. Disintossica se mai dalle scorie e dalle tossine che il nostro stesso stato d’animo corrompeva nelle situazioni in cui si sono avviluppati certi episodi. Che vanno distesi, dipanati, allargati e imbanditi, come se fossero a distanza di tempo tovaglie da usare temporaneamente per un convivio. Per poi essere ripiegate con maggior cura e riposte nei cassetti, dove sapremo ritrovarle.
Per passione e per attitudine personale, trovo particolarmente propedeutico e consolidante il lavoro che un consapevole approccio con la propria memoria può fare a partire da questo tener presente, serbare nel cuore. Senza spaventarsi se di tanto in tanto, transitoriamente il cielo si oscura e l’aria si raffredda, come durante le eclissi. Talvolta i soli più ardenti hanno bisogno di celarsi e di lasciare libero questo passaggio, sostando in questa feconda oscurità.
Così come periodicamente la Terra adombra l’altro lunare e lo eclissa, ponendo in maggior risalto il luccichio della volta stellata, anche questi momenti o periodi di oscuramento e raffreddamento sono preludio di un risorgere con uno sguardo mutato, arricchito, grato anche delle avversità incontrate lungo il cammino o nel diverbio che ha rimarcato e sottolineato una nostra peculiarità.
Soffermarsi sulla strada percorsa per continuare a camminare, o rifletterci su mentre si sta continuando a camminare tenendo presente il sentiero…
Anche queste sono forme ideali di resistenza non passiva, ma propositi che immaginano un mondo e una società con dei virus differenti che non ci chiudono alla ricerca di immunità – quasi fosse metafora di indifferenza; ma ci spingono a veleggiare verso memorie diverse di comunità.
Alla prossima!
Cronache Del Dopo Virus ritorna mercoledì 29 giugno
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