Riflessioni sul calcio camminando per le vie di Genova
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⇒ di Joshua Evangelista ≈ Marcatura A Uomo
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Oggi parliamo di Genova. Ieri mi trovavo a passeggiare tra i caruggi nei pressi del porto, dove un formicaio di persone provenienti da tutto il mondo ha trovato in quei cunicoli fitti la propria dimora. Per dirla con lo scrittore Paul Valery, che proprio a Genova trovò la sua catarsi personale, “si cammina nella vita complicata di questi profondi sentieri come si entrerebbe nel mare, nel fondo vero di un oceano stranamente popolato […] Odori concentrati, odori ghiacciati, droghe, formaggi, caffè abbrustoliti, cacao deliziosi finemente tostati […] Cucine fragranti. Queste torte gigantesche, farine di ceci, mescolanze, sardine all’olio, uova sode imprigionate nella pasta, torte di spinaci, fritture. Questa cucina è antichissima. Genova è una cava d’ardesia”.
Tutto questo lo ha raccontato magistralmente De Andrè (chi scrive è deandreiano fino al midollo). Poeta degli emarginati, menestrello della città vecchia “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, De Andrè era malato per il calcio e in particolare per il Genoa.
Addirittura, la sua compagna Dori Ghezzi raccontò che durante i terribili mesi di prigionia in Sardegna soleva chiedere ai suoi aguzzini i risultati della sua squadra: “Praticamente non potevamo fare nulla, non ci davano la possibilità né di leggere i giornali, né di ascoltare radio, perché non ci arrivassero notizie che in qualche modo potessero riguardarci, però se il Genoa vinceva o perdeva quello ce lo dicevano. Perché lo facevano? Perché lo chiedeva Fabrizio! Gli chiedeva: ‘Ditemi che ha fatto il Genoa’”.
Fondata nell’estate del 1893, il Genoa è la squadra più antica d’Italia, nata da un gruppo di armatori e baronetti inglesi che avevano fatto del porto ligure la propria dimora, strategica nei traffici lungo il percorso che dall’Inghilterra portava al Canale di Suez. Diciamocelo, non poteva esserci un posto più drammaticamente adatto per far diffondere il morbo del football anche in Italia. Scriveva l’indimenticabile Gianni Brera (tifoso del Genoa), che a Genova “non si può giocare bene al calcio perché c’è la macaia, quella condizione meteorologica tipica del golfo ligure in cui spira vento di scirocco e, per dirla con Paolo Conte, provoca “scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia”.
A questo pensavo mentre risalivo la Maddalena e via del Campo e raggiungevo le strade nuove e i palazzi con i rolli, gli eleganti edifici patrimonio dell’Unesco legati alla nobiltà della repubblica genovese. Qui, attaccati ai pali di via Garibaldi, gagliardetti blucerchiati mi ricordavano che esattamente trent’anni fa accadeva un miracolo sportivo. La Sampdoria, l’altra squadra di Genova, che per i genoani fondamentalisti non rappresenta la città, il 26 maggio 1991 vinceva il suo unico scudetto, piazzandosi davanti alle squadre di Milano. Se chiedi ai doriani, ti sanno dire ancora la formazione a memoria: Pagliuca in porta, poi Lanna, Mannini, Vierchowod (forse in quel momento lo stopper più forte del mondo), Katanec, Lombardo, Pari, Mychajlychenko (ma anche Cerezo), Dossena e i gemelli del gol, Vialli e Mancini. In panchina Boskov.
Hanno ancora gli occhi che luccicano, i doriani: era un altro calcio, mi dice un amico. Ma non perché quella squadra era fortissima, ma perché Vialli e Mancini passeggiavano per i vicoli, chiacchieravano con i tifosi. Non c’è da meravigliarsi che alcuni giorni fa questi ultimi abbiano circondato di affetto e cori Vialli a Palazzo Ducale mentre presentava il suo libro su quella storica impresa.
Oggi i tifosi di Genova guardano con nostalgia al presente: al Genoa comanda il giocattolaio mangia-allenatori Preziosi, alla Samp l’imprenditore romano Ferrero, er viperetta. Scudetti all’orizzonte non si vedono. Anzi, i blucerchiati hanno appena perso Ranieri, l’allenatore gentiluomo che aveva portato il piccolo Leicester a vincere la Priemier League in Inghilterra. Forse l’ultimo romantico, perfetto per quel clima nostalgico e decadente di Genova. Decadente eppure viva e frenetica, in una incongruenza difficile da capire a chi non ci ha passato del tempo. A conferma, il Genoa ha fatto esordire Yayah Kallon, ventenne ivoriano che prima di calciare palloni a Marassi aveva percorso Senegal, Mali, il deserto del Sahara e quindi la Libia. Qui lo hanno schiavizzato, rapinato e infine ha traversato il mare. Stava per fare gol, ma non c’è riuscito. Ora rappresenta il futuro del club, così come nella Città vecchia cantata da De Andrè dove c’erano pescatori e immigrati siciliani ora ci sono barbieri senegalesi, pasticceri magrebini e rosticcerie ecuadoriane.
Genova è incontro e scontro, tutti sono genovesi a Genova anche perché, diceva sempre Paul Valery, a Genova si parla un “bizzarro dialetto dal suono nasale e irritante, dalle strane abbreviazioni, vocaboli arabi o turchi”.
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⇒ Foto: minutidirecupero.it ≈ Prossimo Appuntamento: giovedì 12 agosto
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