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Una gita fuori porta, nel villaggio operaio di Crespi d’Adda, in provincia di Bergamo, che voglio condividere con voi…
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Da queste parti i bradipi abbandonano la loro naturale lentezza quando si lasciano travolgere dall’entusiasmo di fronte ad una lettura, un film, una canzone, una mostra, un luogo e chi più ne ha, più ne metta. Questa volta condivido con voi lo stupore che ha suscitato in me una gita fuori porta nel sito di Crespi d’Adda. Probabilmente il nome non vi giunge nuovo. Questo villaggio, sorto alla confluenza tra le acque dell’Adda e del Brembo, laddove le province di Milano e Bergamo si sfiorano, è stato inserito nel 1995 nella lista del patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Tale è la motivazione ufficiale dell’Unesco: “Esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa, il villaggio offre un esempio eminente di un complesso architettonico che illustra un periodo significativo della storia umana e rappresentativo di una cultura”. E, in effetti, appena si giunge a Crespi d’Adda, la sensazione è che il tempo si sia fermato, che, mentre la società e il resto del mondo si siano evoluti, qui tutto sia rimasto fermo ad un’altra epoca.
E’ cominciato tutto nel 1878 con la costruzione di una fabbrica, o per essere più precisi di un opificio tessile-cotoniero, voluto da Cristoforo Benigno Crespi. A quell’epoca di campagna ce n’era tanta, ma poche erano le case e la fabbrica, per poter funzionare, aveva bisogno di braccia. Cristoforo avviò la costruzione, accanto al nucleo originario della fabbrica, di alcuni “palasocc”, palazzotti, grandi case plurifamiliari che avevano il compito di accogliere la manodopera venuta da lontano. Sarà, poi, il figlio di Cristoforo, Silvio Benigno Crespi, che, al momento della fondazione della fabbrica, aveva solo dieci anni, a sviluppare e strutturare l’intuizione del padre. Silvio ebbe la possibilità di viaggiare in Inghilterra e di conoscere le esperienze dei villaggi operai anglosassoni, delle vere e proprie cittadine in cui veniva assicurato agli operai non solo il lavoro, ma anche una casa e tutta una serie di servizi indispensabili alla comunità che gravitava intorno alla fabbrica, dalle scuole agli ospedali. All’interno del villaggio tutto doveva essere ordinato ed efficiente, gli operai dovevano trovarvi all’interno tutto ciò di cui potessero aver bisogno. Filantropia interessata, quella della famiglia Crespi: migliorare le condizioni di vita degli operai al di fuori della fabbrica era semplicemente il modo migliore per avere operai motivati, fedeli e produttivi.
Percorrendo ancora oggi le vie di Crespi d’Adda si vedono concretamente l’ordine e la razionalità con cui il villaggio si è sviluppato. Sembra di esser catapultati in un altro mondo. Arrivando dalla strada principale a catturare l’attenzione è prima di tutto la grande chiesa in stile rinascimentale, costruita in posizione leggermente sopraelevata rispetto al villaggio. In posizione ancora più elevata della chiesa, si trovano due abitazioni che vegliano sull’intero nucleo, le case che, un tempo, erano assegnate al parroco e al medico. Due figure fondamentali per Silvio Crespi, perché dovevano occuparsi dello spirito e del corpo degli operai e delle loro famiglie. Il controllo sociale e il grande ascendente morale che queste due istituzioni rappresentavano è testimoniato dal fatto stesso che entrambe le figure erano alle dipendenze dirette dell’azienda, cosa comprensibile e addirittura all’avanguardia per il ruolo rivestito dal medico, decisamente più inconsueta e bizzarra per quello del parroco, per il quale si dovette giungere ad un accordo ad hoc con la curia di Bergamo. Poco distante si trova la scuola, che comprendeva asilo, scuole elementari e una scuola di economia domestica, voluta da Crespi perché anche i figli degli operai imparassero a leggere e a scrivere e perché fosse il punto di partenza per la formazione della futura manodopera. E non finivano qui i servizi pubblici che volle Crespi; girando per le vie possiamo ancora trovare l’edificio che ospitava i bagni pubblici ( inizialmente non tutte le case degli operai erano dotate di acqua corrente ), quello destinato al dopolavoro, dove si organizzavano attività sportive e culturali, il lavatoio, un piccolo ospedale per soccorrere tempestivamente chi si faceva male in fabbrica.
Proseguendo lunga la via principale, si arriva alla zona residenziale. Rispetto ai palazzotti dell’epoca del capostipite Cristoforo, dove alloggiava la gran parte della forza lavoro, qui troviamo piccole villette, che ospitavano due o al massimo tre nuclei familiari, spesso imparentati tra loro, case destinate agli operai con maggior anzianità di servizio. Ogni villetta aveva il proprio giardino sul davanti, per poter garantire agli operai di trascorrere il tempo libero all’aperto, e un orto nel retro, la cui coltivazione permetteva un piccolo raccolto casalingo. In posizione ancora più decentrata e tranquilla, si incontrano, poi, le villette destinate ai dirigenti della fabbrica, molto più curate e appariscenti rispetto a quelle tutte uguali e semplici degli operai. D’altra parte, più si sale di livello, più si ha diritto a qualche benefit aggiuntivo, no?
In questo reticolo di strade, che s’intersecano dando origine a disegni regolari e precisi, s’incontra, direi quasi finalmente, la fabbrica, il motivo fondante dell’intero villaggio, intorno alla quale è sempre ruotato il tutto. Nei momenti d’oro la fabbrica ha dato lavoro a quattromila persone, ma questi tempi d’oro sono durati ben poco, perché già negli anni Trenta del Novecento la crisi l’ha investita prepotentemente fino a segnarne il declino definitivo nei primi anni Duemila. Tuttavia, la fabbrica è ancora in piedi e si erge in tutta la sua maestosità: la cancellata d’ingresso, rossa con decorazioni floreali, i capannoni, ingentiliti dalle decorazioni in cotto e dalle finestre in stile gotico, le palazzine gemelle che ospitavano gli uffici della dirigenza, la ciminiera che svetta nel paesaggio circostante con i suoi settanta metri. Tutto ricorda un passato grandioso, che si è ormai cristallizzato nel tempo.
A vegliare su questo passato ci sono gli ultimi due punti focali del villaggio. Da un lato la residenza degli stessi Crespi, chiamata anche “il castello”, che di un castello riprende sia le fattezze che il ruolo dominante su tutto il borgo, là, isolato e inaccessibile agli operai, ma che degli operai tutto controlla e tutto dirige. E poi, dal momento che il destino degli operai era legato a quello della fabbrica, in vita così come in morte, attraverso il viale che taglia l’intero abitato, si giunge al camposanto. Come nella vita di tutti i giorni la residenza dei Crespi domina l’abitato, così, all’interno del cimitero, l’ingombrante, e vagamente inquietante se mi è consentito, mausoleo della famiglia domina le semplici tombe degli operai qui sepolti, tanti piccoli cippi tutti uguali fra loro.
Tutte queste e molte altre informazioni ci sono state fornite da una preparatissima e gentile ragazza, che ha accompagnato la sottoscritta e la sua dolce metà tra le vie del villaggio. Anzi, la fanciulla è stata anche coraggiosa, perché siamo stati in grado di scegliere per la nostra visita un pomeriggio di fine estate, che ha visto aprirsi le cateratte del cielo su di noi e, sprezzante del pericolo e dotata di un solo fragile ombrello, non si è tirata indietro di fronte alla nostra folle idea di passeggiare sotto il diluvio. Nell’edificio che ospitava un tempo la scuola, infatti, si trova ora un centro che accoglie i visitatori, dove potrete trovare materiale informativo sul villaggio, video che ne raccontano la nascita e la storia, e, se volete, anche delle guide che, a fronte di una modica e più che meritata cifra, vi possono guidare nella visita e rispondere a tutte le vostre domande. Se è la prima volta che vi avvicinate a Crespi d’Adda e non ne sapete assolutamente nulla, è un’opzione che mi sento di consigliarvi, perché vi consente di avere un approccio più consapevole rispetto a quanto vedrete. Anche perché questa scelta non vi preclude certo di fare quanto abbiamo fatto noi al termine della vista guidata, e cioè perderci per le vie del villaggio senza una meta precisa, bighellonare alla ricerca di scorci e prospettive, chiudere gli occhi e immaginare come doveva essere la vita quotidiana ai tempi del massimo splendore, farsi prendere dalla malinconia nel vedere lo stato d’abbandono in cui versano alcuni edifici. Non tutti, beninteso, perché Crespi d’Adda è ancora abitata; nelle villette destinate agli operai vivono ancora i loro discendenti e qualcuno, nei giardini alla fine del temporale o dietro le finestre, l’abbiamo intravisto. Monito ad essere rispettosi durante la visita, perché non si è in un museo davanti a statue e quadri, bensì in luogo in disarmo, ma ancora pulsante di vita.
L’utopia che ha preso vita nei mattoni e nelle vie di Crespi d’Adda è figlia di un determinato periodo storico, sul quale sono state spese tante parole e le riflessioni potrebbero nutrirsi ancora oggi di sempre nuovi spunti. Credo che tramandarne la storia sia d’importanza fondamentale, come lo è sempre quando si parla di memoria, perché solo conoscendo il passato si possono porre basi solide per il futuro. E’ per questo che vi consiglio, qualora capitaste in questa zona della Lombardia, di deviare dalla vostra strada e di spendere qualche ora nelle vie di Crespi d’Adda. Sono sicura che non ve ne pentirete.
Tra l’altro, proprio quest’anno è uscito, per Editrice Nord, un libro di Alessandra Selmi intitolato “Al di qua del fiume”, che ripercorre le vicende della famiglia Crespi e la nascita di Crespi d’Adda. Io non l’ho ancora letto, ma conto di recuperarlo in vista del Natale e non è detto che non se ne riparli in futuro su questi schermi.
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Foto: Sara Migliorini
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Da Battere Le Zampe ritorna mercoledì 1 febbraio
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Cara Sara, bellissimo racconto, che ci/mi invita a visitare questo luogo. Se deciderai di oltrepassare il confine e venire in Piemonte, ti suggerisco una visita ad un altro villaggio, altrettanto interessante, di dimensioni più piccole, anch’esso legato all’industria tessile, quello del villaggio Leumann di Collegno.
Sara sempre strepitosa! Una ricostruzione delicata e nitida di una società di altri tempi👏👏
Ciao Sara,
Leggendo questo tuo racconto e’ venuto in mente quando avdavamo a visistare i posti bellissimi con Guido e Indi.
Bellissimo racconto… ❤️
Un caro saluto dallo srilanka.
Cara Sara, conosco bene Crespi d’Adda, eppure il tuo racconto mi ha insegnato cose nuove e mi ha fatto desiderare di tornarci e di portare anche i miei studenti. E’ bello pensare che è esistito anche un capitalismo dal volto umano, che credeva nel lavoro, senza disdegnare i guadagni. I sentimenti che hai descritto nel bighellonare tuo e di Guido tra le strade dopo la visita sono propri di persone speciali, che sanno unire la conoscenza al sentimento.
Sembra davvero di immergersi fisicamente in una realtà d’altri tempi. Grazie per questo suggerimento