Una squadra modesta, giocatori sconosciuti e gregari arrivati a fine carriera, tante storie e l’ombra della Superlega…
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⇒ di Joshua Evangelista ≈ Marcatura A Uomo
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Giugno 2004, vigilia degli Europei portoghesi. Un mio amico punta dieci euro sulla vittoria finale della Grecia. Si tratta di una squadra modesta, composta da alcuni giovani sconosciuti e un gruppo compatto di gregari arrivati a fine carriera senza aver lasciato il segno nel calcio che conta. Sono allenati da Otto Rehhagel, un tedesco di Essen che sei anni prima aveva vinto la Bundensliga con il neopromosso Kaiserslautern. I bookmaker vedono molto male gli ellenici: una vittoria finale è data 1 a 150. Il mio amico va in ricevitoria, compila la scheda, consegna i dieci euro alla cassiera. Il resto è storia. Per i greci, che mai hanno vissuto un’epopea calcistica così incredibile. Per il mio amico, che dopo il gol-vittoria in finale firmato da Charisteas si è ritrovato con 1500 euro in tasca e una storia da raccontare per decenni.
Più o meno quello che è successo ai tifosi del Leicester di Ranieri del 2016, che vinse la Premier League davanti ai colossi di City, United, Chelsea e Liverpool. O ai supporter scatenati della Stella Rossa, che il 29 maggio 1991 alzò verso il cielo la Coppa dei Campioni al San Nicola di Bari schierando alcuni giovani che avrebbero fatto la storia del calcio europeo: Savicevic, Jugovic, Prosinecki, Mihajlovic. O ancora, perdonerete il campanilismo, quello che ho vissuto grazie alla “mia” Pescara nel 2012: il presidente del Delfino ottiene in prestito alcuni giovincelli di belle speranze e li fa allenati da un certo Zdenek Zeman, con l’obiettivo di fare un campionato di mezza classifica in B. Come se con Zeman si può programmare una stagione senza sorprese. Finiscono primi, ancora oggi nei bar di Pescara, tra una genziana e un centerbe, si parla di quella squadra. E non solo: quegli sbarbatelli oggi costituiscono la colonna portante della nazionale italiana: Verratti, Insigne, Immobile.
Il calcio è questo. Imprevedibile, sofferto. Novantanove volte su cento la vostra squadra va male e fallisce l’obiettivo. Vi deprimete, vi chiedete se valga davvero la pena soffrire per ventidue ragazzi che corrono appresso a una sfera. Ma poi c’è quella volta, quell’unica volta in cui il fischio finale dell’arbitro si trasforma in un urlo collettivo, in un momento da sigillare e raccontare ai nipotini. Pensate alla formula della FA Cup, la coppa più antica del mondo: squadre dilettanti e dream team partono tutte dallo stesso livello, unite da quella piccola scintilla che porta a pensare: non succede, ma se succede…
Oggi impazza la polemica sulla Superlega. Una manciata di squadre indebitate fino al collo che per evitare il collasso, vogliono scegliere le regole ed evitare brutte sorprese. Un torneo chiuso in cui i tifosi sono consumatori di un prodotto di intrattenimento. Un game show in cui i rischi sono calcolati per non nuocere ai brand. Chissà se si farà. Del resto trovo abbastanza ipocrita che i difensori del calcio popolare sono diventati, incredibilmente, l’Uefa, il PSG degli Emirati o agenti-avvoltoi come Raiola.
A prescindere, Superlega o meno, c’è sempre meno gusto a puntare dieci euro sulla più scarsa.
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⇒ Foto: pexels.com ≈ Prossimo Appuntamento: giovedì 20 maggio
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