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Tutti abbiamo un capo, o lo abbiamo avuto… Esserlo è un mestiere che si trasmette per vie misteriose…
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Tutti abbiamo un capo, o lo abbiamo avuto. Ma uno solo è il grande capo Bromden, il gigante indiano di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Eppure ora devo parlare di lavoro, il che sottintende capi di diverso genere.
Essere un capo è un mestiere e si trasmette per vie misteriose. Se uno non è capo per nascita, c’è sempre un momento in cui da sottoposto diventa capo. In che modo? Tanti sono, ma quello ritenuto più sano è il caso di chi si distingue tra i suoi colleghi per capacità superiori e viene promosso a capo di quel gruppo. Promosso a capo con tutta probabilità è chiamato a fare tutt’altro lavoro rispetto a quello nel quale aveva mostrato le sue abilità. Nel nuovo lavoro diventa insomma un incapace. Più facile che risulti capace chi progredisce per vie diverse. Il merito insomma è una gran fregatura, per il capo e per chi gli sta sotto.
Ogni capo vorrebbe dai suoi sottoposti un’utilità. Ma qui scatta un altro paradosso curioso, cioè che il sottoposto – più si ingegna in tutti i modi per mostrarsi utile- più diventa invisibile agli occhi del capo. A volte arrivi ad essere talmente invisibile che il capo non si accorge più neppure della tua inutilità. E questo però è buono.
Trent’anni passati così sono lunghi, parola mia. Come dipendente formalmente sono stato assunto in qualità di “quadro”, il che – dovevo intuirlo – ti prepara a fungere da arredamento, senza troppa meraviglia. Già la meraviglia! In tanti anni di lavoro nessun senso si atrofizza di più di quello della meraviglia.
Vabbè, lascia il lavoro allora! Ti dicono. Facile, come no, quando ti decidi a farlo però scopri che avevi ormai contratto una forma di “dipendenza” dal tuo datore di lavoro. Per disintossicarti da questa dipendenza dovresti andare in comunità. Oppure all’“anonima” di quelli che patiscono una dipendenza da stipendio fisso. L’anonima funziona come nei film: ti trovi in un gruppo, quando è il tuo turno ti alzi in piedi, ti presenti e dici “sono tre giorni che non lavoro”; e tutti applaudono. Poi esci e vai a festeggiare con gli altri alla mensa della Caritas.
Macchè, invece vai avanti, anno dopo anno alla tua scrivania. E per non perdere la spinta iniziale ti dicono che in fondo non si finisce mai di imparare, e questo anche non è vero. Quello che non si finisce mai è di disimparare. Prima di nascere sappiamo tutto e la vita che segue è una corsa folle a disimparare. Altro che saggezza della vecchiaia. Dove si disimpara di più è sul lavoro, naturalmente. Tutte le cose importanti si disimparano una dopo l’altra. Ti chiedi se arriverà un momento nel quale la dismissione del tuo sapere si ferma… tranquillo, arriva. Arriva sempre, e non è la pensione.
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L’ultimo lavoro che ho fatto è stato in una biblioteca, dove ero l’unico impiegato rimasto in servizio, dopo un genocidio di pensionamenti senza nuove assunzioni. Rimasto io, come l’ultimo dei Moicani.
La solitudine a volte genera esperienze interessanti, come il fatto che i libri, quando meno te lo aspetti, ti rivolgono la parola, a bassa voce per non disturbare i fantasmi. E mi hanno confessato quanto sanno di essere inutili e dannosi anche! Molti pensano che i libri siano vittime dell’indifferenza dei lettori e invece no…loro non sono vittime, sono colpevoli, ma non dell’ignoranza dei lettori, sono colpevoli di come hanno ridotto quelli che li hanno letti, i presunti uomini di cultura, quelli che stanno mandando in vacca il mondo molto più degli ignoranti! Così mi hanno detto, io riferisco solo.
Prima di lavorare in biblioteca ho lavorato al servizio viabilità del Comune dove ho imparato quanto sono inutili le strade. Se lo scopo delle strade è sterminare pedoni, finalità lodevole, purtroppo le strisce pedonali non bastano, sono trappole antiquate, occorrono metodi più all’avanguardia. Le rotonde per estinguere i ciclisti vanno sempre bene, ma i ciclisti si stanno facendo furbi. Siamo troppo indietro anche lì.
Io lavoravo all’ufficio “ingorghi”, dove avevamo capito che evitare gli ingorghi è stupido quando si possono studiare metodi per far socializzare gli automobilisti. Purtroppo finisce sempre che gli ingorgati litigano su chi doveva portare da bere. Dovremmo inviare delle armi, così fanno la pace.
Prima ancora ho lavorato al servizio personale del Comune. Mi occupavo della pianta organica. Dovevo potarla e concimarla, anche un po’ d’acqua ogni tanto, quanto basta. Lo facevo con amore. Ma non avevo abbastanza il pollice verde e hanno affidato la cosa ad un computer. Non so se avete presente il mio computer di allora. Era un computer che veniva dai magazzini della Rai e apparteneva al materiale di scena del telefilm “A come Andromeda” degli anni 70. Ho cercato di defilarmi dicendo che non ero un informatico, ma non è servito, perché il computer aveva il terrore proprio degli informatici. Eravamo fatti l’uno per l’altro.
Prima ancora di lavorare in comune avevo lavorato in uno studio legale dove mi sono distinto per aver preso le difese in giudizio di un avvelenatore di api. Quando l’ape ha preso la parola in udienza con argomenti ineccepibili ho sollevato eccezione di incompetenza… ho avuto ragione, il giudice mi ha riconosciuto incompetente e lì la mia carriera è finita ed è cominciata quella in comune.
Racconterò questa storia all’anonima dipendenti. Oppure, come Jack Nicholson, al “grande capo Bromden” sotto il nido del cuculo.
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Foto di copertina: ondacinema.it
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