di Giuseppe Rissone pixaby.com
Quando si diventa vecchi? Quando sui mezzi pubblici ti cedono il posto… Quando al supermercato ti fanno lo sconto…
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Quando si diventa vecchi? Quando sui mezzi pubblici ti cedono il posto a sedere. Oppure: al supermercato ti fanno lo sconto sulla spesa, perché ti credono pensionato… A parte le battute, è difficile dire oggi qual è la linea di demarcazione che segna il passaggio tra essere giovani e diventare vecchi. Se penso alla mia infanzia, il/la sessantenne era visto/a come vecchio/a, nonno/a. Oggi si lavora sino alla soglia dei settant’anni, si diventa genitori o si decide di vivere in coppia non prima dei trent’anni, salvo naturalmente le eccezioni. Tutto questo è un bene? Non è mia intenzione dare una spiegazione sociologica di questi mutamenti, non ne sarei in grado, e sarebbe per voi una lettura inutile, anche perché sul web e non solo potete trovare analisi sicuramente migliori delle mie. Detto questo voglio condividere alcune riflessioni con voi – prima di arrivare alla piccola storia quotidiana – noto che sempre di più l’essere anziano/vecchio sia una condizione da cancellare, si fa di tutto per rimuovere questa naturale condizione, con rimedi che alle volte rasentano il ridicolo. Se la mente e il fisico reggono non c’è nulla di male – anche raggiunti o superati i 60 anni – nel svolgere attività cosiddette per giovani, io per primo amo cose che a prima vista sembrano adatte solo per quella fascia d’età: come trasmettere da una radio. Quello che in qualche modo m’infastidisce e mi lascia molto perplesso è l’aspetto esteriore, e non solo delle donne, anche gli uomini sono in prima fila con capelli tinti e tiraggi vari sul viso, quando l’età gioco forza presenta le rughe e i capelli bianchi. Aggiungo un’altro aspetto dell’essere vecchio, che in questi tempi di pandemia è salito a galla in modo aberrante, chi non ha sentito dire e/o leggere che in riferimento ai primi morti per Covid: ma sono vecchi, è normale… Lascio a voi commentare, io preferisco tacere, ma comunque denominando questo pensiero come “aberrante” avete capito come la penso.
Questo è il mio pensiero, convinto che lasciare spazio solo all’esteriore e poco all’interiore sia segno di una società malata, fatta solo o quasi di consumi inutili, il pistolotto termina qui e adesso vi racconto la mia piccola storia quotidiana…
Una storia che risale al lontano 1982, mese di agosto, regione Basilicata, località Sant’Arcangelo, provincia di Potenza. Che ci faccio a quasi mille chilometri da Torino? Presto detto, sono andato a conoscere le radici della mia ragazza/fidanzata/compagna – usare questi termini anonimi e freddi mi disturba – quindi d’ora in poi userò il suo nome: Teresa.
Questo primo mio viaggio in terra Lucana – ne ho fatti altri tre negli anni successivi – ha lasciato in me ricordi profondi, alle volte contrastanti, forse è il ruolo degli anziani/vecchi in un piccolo paese di campagna che mi ha maggiormente colpito, quasi del tutto attivi nel continuare a lavora la terra, alcune volte per stretta necessità, altre volte per puro piacere, coinvolti sia uomini che donne. La loro presenza era tangibile ad ogni angolo delle strade, terminato il lavoro nei campi, nel tardo pomeriggio era normale trovarli seduti su piccole sedie fuori dall’uscio di casa, intenti a chiacchierare oppure occupati a svolgere operazioni con i prodotti da loro coltivati: la conserva di pomodoro, verdure sottolio, e gli immancabili pomodori messi a seccare al sole.
Il conversare e conoscere alcune di queste persone, ha arricchito la mia comprensione della gente di quelle terre, anticipata molti anni prima dalla visione del film e poi dalla lettura di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, e dalla successiva visita – sempre nel 1982 – ad Aliano, comune dove Levi fu confinato dal regime fascista. Passeggiando per le vie di Aliano, io e Teresa, siamo stati accolti dagli abitanti – tutti anziani, molto anziani… – da un giovale saluto di benvenuto: Salve gioventù! Evidente segno che ogni volto non appartenente alla loro comunità era arrivato per conoscere e vedere i luoghi del confino di Carlo Levi, e per questo andavano accolti.
Mi devo fermare, tornerò a parlarvi di Basilicata in altre occasioni, adesso voglio portare alla vostra attenzione un incontro:
Lei è Margherita, ultra settantenne, vedova, zia di Teresa da parte di madre, abitava in una vecchia casa poco lontano dal centro del paese, da cui si accedeva da una piccola scala composta da pochi gradini, sarebbe più giusto dire che non era una e vera propria casa, era composta da una sola stanza, che prendeva luce dalla porta che si affacciava sulla strada.
Io Teresa ci passavamo davanti quasi tutti i giorni, Margherita era quasi sempre seduta fuori dalla porta e ci salutava sempre con un sorriso, invitandoci ad entrare per offrirci una caramella, un biscotto, non sempre riuscivo a comprendere quello che diceva, il dialetto era la sua forma preferita per comunicare, nonostante questa difficoltà, era piacevole ascoltare la sua voce. Sempre vestita allo stesso modo, gonna lunghissima, scialle, capelli bianchissimi, la solitudine non sembrava disturbarla, e nemmeno quella vita che ai miei occhi sembrava fatta solo di stenti.
Passare anche pochi minuti, pochi istanti con lei, era per me un piacere, non avevo la stessa gradevole sensazione come con altre persone del paese, Margherita non proferiva domande banali, come: cosa fai? dove lavori? la tua famiglia di dov’è? quando vi sposate? avete trovato casa? Domande che mi sono sentito ripetere per centinaia di volte, Margherita no, lei ci accoglieva, poche parole, contenta di vederci, quella visita per lei era un regalo immenso, non servivano atteggiamenti particolari, l’importante era esserci.
Margherita ha lasciato la vita terrena molti anni fa, ho avuto modo di rivederla diversi anni dopo, sempre con il suo sorriso e la sua semplice accoglienza, e nonostante siano passati oltre trent’anni dalla sua dipartita, il suo ricordo non mi ha mai lasciato, dandomi della vecchiaia un’idea di serenità e saggezza. Concludo con un altro episodio di quei giorni, che reputo divertente: quello che poi diventò mio suocero – per lo stesso principio enunciato prima, d’ora in poi Nicola – stufo di sentirsi chiedere che mestiere faceva il fidanzato di sua figlia, s’inventò che ero un poliziotto, che non amavo essere disturbato, e che se mi giravano i due minuti avrei potuto prendere pistola e manette. Tutto questo a mia insaputa, notavo solo che alcune persone che prima cercavano di attaccar bottone si allontanavano alla mia vista. Una sera durante la festa patronale del paese, un signore mi fermò chiedendomi se ero generale di musica, lì capii che c’era lo zampino di Nicola, che confessò la sua trovata, ma come spesso succede nei paesi il passaparola mi ha trasformato da poliziotto a generale di musica…
Sempre in maggiori occasioni mi offrono il posto sui mezzi pubblici, e mi fanno sconti nei supermercati, che comodità diventare anziani… Allo stesso modo che bello avere ricevuto in dono una voglia di fare, conoscere, sperimentare che non è cambiata, almeno sino ad oggi.
Piccole Storie Quotidiane ritorna venerdì 24 dicembre
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