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Dal 15 febbraio su Netflix sei puntate dedicate all’avvocatessa Lidia Poët, un successo internazionale che suscita diversi dubbi…
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Lidia Poët muore il 25 febbraio 1949 a 94anni, a Diano Marina (IM), nasce a Traverse, borgata di Perrero (TO) nel 1855. Valdese, si trasferisce a Pinerolo a casa del fratello Enrico, avvocato. Si diploma come maestra e nel 1878 si iscrive contro la volontà paterna alla Facoltà di Legge dell’Università di Torino, città in cui si laurea nel 1881 con una tesi sulla condizione della donna nella società, con particolare attenzione alla questione del voto femminile. È la prima donna in Italia a laurearsi in giurisprudenza, nel 1920 è anche la prima donna italiana iscritta all’Ordine professionale degli avvocati, dopo lunghe battaglie.
Questa introduzione ha due obiettivi, la prima, presentarvi la storia di una donna, che con la sua perseveranza e forza è riuscita a far valere e ottenere parità di trattamento, la seconda è la serie a lei dedicata, visibile su Netflix, un successo internazionale, Torino è tappezzata in diverse zone dalla locandina della fiction, ma…
Eh sì ma, perché la serie è liberamente tratta dalla vita di Lidia Poët, forse troppo, la pronipote Marilena Jahier, classe 1948, dichiara al quotidiano La Stampa: mi lasci dire che in quella serie tv non c’è sul serio nulla della mia parente Lidia: ne ho vista una sola puntata e poi ho abbandonato per sdegno. Il bisnipote, Valdo Poët, classe 1941, sempre sulle pagine del quotidiano torinese boccia la serie, senza neppure averla vista: Mi sono bastati i racconti: io l’ho conosciuta quando avevo 7 anni a Diano Marina, ma me ne hanno sempre parlato come di una donna serissima, dedita soltanto allo studio, elegante e riservatissima. Sia secondo Marilena Jahier sia secondo Valdo Poët, poi, ci sono altri macroscopici errori nella fiction: Intanto lei non ha mai vissuto in un villone a Torino. Abitava a Pinerolo, in una casa storica del centro, sopra i portici. Che bisogno c’era di stravolgere la storia? Era già abbastanza avventurosa restando fedeli alla realtà. Altro errore: Neppure il fratello di Lidia era sposato, mentre nella serie appare e parecchio una moglie.
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Le voci critiche non finiscono qui, come quella di Peter Ciaccio, pastore metodista, e curatore del sito Fides Et Film, che sulle colonne del settimanale Riforma – qui l’articolo completo, dal titolo Licenza Poëtica – cosí recensisce la serie:
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In tempo per il XVII Febbraio – 1848: Re Carlo Alberto firma le Lettere Patenti concedendo libertà civili ai valdesi e agli ebrei (NdR) – è uscita per Netflix una serie tv che oscilla tra il legal e il crime, con protagonista una delle personalità più importanti della storia valdese, una donna che lottato per i diritti di tutti e tutte. La legge di Lidia Poët [pronunciato Pòet, sic] pare prendere, però, solo pochi elementi dalla storia: qualche nome, l’ambientazione torinese e due eventi biografici…
Ciaccio prosegue…
La sensazione è che al personaggio Lidia sia stata strappata l’anima. È soltanto una donna di fine Ottocento che rivendica il diritto di esercitare l’avvocatura. Non è poco, certo, ma non è neppure abbastanza per renderla credibile agli occhi del pubblico e suscitare empatia. Altri aspetti della serie, poi, non tornano. Tralasciando alcune incongruenze narrative e il fatto che Torino sembri appena scartata dal cellophane per quanto è pulita, colpisce un linguaggio non consono all’ambientazione: i personaggi sono alquanto sboccati e si danno quasi tutti del tu.
Ciaccio conclude con qualche parola di speranza…
In conclusione, la speranza è che nonostante tutto questa serie contribuisca a far conoscere questa donna straordinaria, italiana e valdese, montanara e intellettuale, e che susciti interesse intorno alle sue battaglie. Sarebbe importante in un’Italia che ha difficoltà a fare i conti con il passato e che spesso si dimentica di onorare la memoria dei suoi figli e delle sue figlie migliori.
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Personalmente ero interessato a seguire la serie, difficilmente una storia che riguarda il mondo valdese, raggiunge il grande pubblico, quindi una gradita e piacevole occasione, poi leggendo le critiche e le osservazioni sopracitate ho preferito fermarmi, allo stesso tempo ho pensato che forse le scelte degli autori siano state colpite dalla sindrome che potrei riassumere in non far sapere agli italiani che si può essere diversamente cristiani… A conclusione, segnalo che il 28 luglio del 2021 è stata intitolata l’area giochi sita all’interno dei giardini “Nicola Grosa”, davanti al Palazzo di Giustizia di Torino. Se vi capiterà di passare, fermatevi a leggere la targa in ricordo della figura di questa straordinaria donna, in così forte anticipo rispetto ai tempi in cui visse, che costituisce, ancora oggi, esempio di determinazione esemplare nel perseguire, con gli strumenti del diritto, la parità di genere e il superamento delle discriminazioni. Una scelta, quella di dedicare un giardino, che può essere molto più utile e significativa, di quanto non abbia o non sia riuscita a fare le serie Tv.
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Foto: riforma.it
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Bradipo Reporter ritorna giovedì 9 marzo
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