notizia scelta da Enea Solinas
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Il desiderio di raccontare e trovare la verità
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Sono trascorsi 30 anni da quando la giornalista Ilaria Alpi venne uccisa a Mogadiscio insieme al collega Miran Hrovatin. Come redazione abbiamo deciso che era importante dire qualcosa in loro ricordo, e lo facciamo con un articolo – tra i tanti – pubblicato da Vanity Fair a firma di Alessia Arcolaci.
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laria Alpi era una giornalista appassionata. Era brava. Quando è stata uccisa, non aveva ancora 33 anni. Li avrebbe compiuti il 24 maggio 1994, ma due mesi prima, il 20 marzo, venne ammazzata a colpi di mitragliatore insieme al collega e cineoperatore triestino Miran Hrovatin. Erano a Mogadiscio, in Somalia, dove Ilaria Alpi stava seguendo come inviata per il Tg 3 la guerra civile e in particolare il ritiro delle truppe statunitensi che in quei giorni stavano lasciando il Paese. Per arrivare lì, Ilaria Alpi aveva studiato tantissimo, da quando scriveva nel giornalino scolastico a quando fece il concorso per entrare in Rai, spinta dalla sua famiglia perché lei non pensava di essere pronta. All’università aveva imparato la lingua araba, parlava anche francese e inglese e grazie alla sua preparazione ottenne i primi incarichi come corrispondente dal Cairo per Paese Sera e l’Unità. Aveva lavorato anche in Libano e Kuwait, raccontandone gli effetti della guerra.
Poi l’ingresso in Rai, un sogno che si realizzava e il desiderio di trovare e raccontare sempre e comunque la verità. Era una missione per Ilaria, che in Somalia insieme al suo cameramen stava indagando su un presunto traffico internazionale d’armi e di rifiuti tossici illegali tra la Somalia e l’Europa dove ad essere coinvolte sembravano essere anche società italiane, coperte dalla missione umanitaria. Forse l’esercito e alcune istituzioni italiane. Ma su queste indagini non è più stata fatta luce. Così come ancora oggi, trent’anni dopo il 20 marzo 1994, non sappiamo ancora la verità circa l’omicidio (e i mandanti) di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. L’ultima intervista fatta dalla giornalista è stata al sultano della città di Bosaso, a proposito di una società di pesca italosomala, la Shifco, sospettata di essere coinvolta nella faccenda dei traffici e di una nave, la Faraax Omar, sequestrata dai miliziani somali.
«C’è un filo invisibile che lega la morte di mia figlia alle navi dei veleni, ai rifiuti tossici partiti dall’Italia e arrivati in Somalia. Ci sono documenti che lo provano. Ci sono le testimonianze dei pentiti. Eppure nessuno ha avuto il coraggio di processare i colpevoli. In carcere è finito un miliziano somalo che sta scontando 26 anni, ed è innocente». Sono le parole ripetute dalla madre di Ilaria, Luciana Alpi, morta a 85 anni nel 2018 dopo aver chiesto verità e giustizia ininterrottamente per 24 anni. Alla fine era stanca, soprattutto dopo le richieste di archiviazione, che non hanno ancora permesso di scoprire la verità sull’accaduto.
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Negli anni si sono susseguiti colpi di scena, polemiche, depistaggi e un’unica condanna, quella del somalo Omar Hassan Hashi, accusato da due testimoni, l’autista di Alpi e Hrovatin, Sid Abdi, e il testimone oculare Ali Ahmed Ragi detto «Gelle». Sostenevano che fosse uno dei sette uomini del commando che sparò sui due giornalisti italiani. Le dichiarazioni dei testimoni vennero più considerate poco attendibili dal tribunale di Roma che lo assolse ma venne successivamente condannato in appello. Nel 2000 la sentenza fu confermata dalla Cassazione: 26 anni di carcere. Fu grazie alle indagini portate avanti dalla trasmissione televisiva Chi l’ha visto? che il processo venne rivisto e Hashi, dopo 16 anni di carcere, tornò libero con una sentenza che lo definiva «il capro espiatorio» e stabiliva un risarcimento di oltre 3 milioni di euro. La troupe di Chi l’ha visto? era riuscita a incontrare uno dei testimoni che in quell’occasione dichiarò «di aver accusato Hashi in cambio di un visto per lasciare la Somalia, perché gli italiani volevano chiudere il caso». A quel punto, un anno dopo, le indagini vennero riaperte ma l’archiviazione venne chiesta pochi mesi dopo nonostante le manifestazioni della famiglia, nel 2018 vennero disposto ulteriori approfondimenti ma ad oggi nulla è cambiato. Successivamente è stata nuovamente chiesta l’archiviazione. Il 6 luglio 2022 Hashi è morto a Mogadiscio, saltato in aria con una bomba posta nella sua macchina.
Nel 2017 la procura di Roma riaprì le indagini e ne chiese l’archiviazione qualche mese dopo: la famiglia Alpi si era però opposta, e nel giugno del 2018 il gip aveva disposto ulteriori accertamenti. Oggi l’inchiesta giudiziaria, alla Procura di Roma, formalmente è ancora aperta ma non sappiamo niente. L’unica verità storica è che Ilaria Alpi è stata uccisa mentre faceva bene il suo lavoro e per oltre 20 anni la sua famiglia, con la voce di suo padre Giorgio e la madre Luciana, non ha mai smesso di chiedere giustizia e verità. Perché anche questo non rimanga uno dei misteri del nostro Paese, mancante di verità giudiziaria.
Se è vero che la verità ha bisogno di tempo, è importante non dimenticare. Ecco perché ancora oggi, come ha sottolineato Walter Verini, capogruppo del Partito Democratico in commissione Antimafia, con Mariangela Graimer, portavoce del cartello Noi non archiviamo, «la battaglia per la verità va avanti. Abbiamo chiesto e ottenuto la disponibilità a un incontro dal procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi», spiega Verini, «per fornire tutti i tasselli utili, anzi necessari per sostanziare la richiesta di non archiviare la vicenda: ci sono gli elementi per raggiungere la verità e la giustizia. E la coincidenza dell’approvazione, qualche giorno fa, da parte del Parlamento europeo, di un atto che tutela il servizio pubblico e il giornalismo di inchiesta, è un modo per onorare la memoria di Ilaria e di tutti i giornalisti, da Daphne Caruana Galizia a Anna Politkovskaja, che in questa missione hanno perso la vita».
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Foto: vocedellascuola.it
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La Bradipo Notizia ritorna domenica prossima
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