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Manuale di sopravvivenza agli scandali calcistici
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Mentre nel mondiale qatariota dei petrodollari le cenerentole che stiamo tifando cadono una a una (fuori Senegal, Camerun, Giappone, l’Iran dei dissidenti…), in Italia è emerso l’ennesimo scandalo Juventus.
Lo scorso 28 novembre, il consiglio di amministrazione della Vecchia Signora ha dato le dimissioni in seguito a una inchiesta della Procura di Torino sui conti della società. Le ipotesi di reato sono quattro: false comunicazioni sociali, manipolazione del mercato, ostacolo agli organi di vigilanza e false fatture per operazioni inesistenti.
La società è accusata di aver utilizzato manovre correttive per modificare i bilanci attraverso plusvalenze artificiali e gestione poco trasparente, per usare un eufemismo, degli stipendi durante il periodo più difficile dell’emergenza Covid.
A tanti tifosi è tornato l’incubo Calciopoli e la retrocessione in Serie B nel 2006, anno di un altro mondiale, molto più lieto per gli italiani.
Non ci soffermeremo qui sulla parte giudiziaria della vicenda, di cui sappiamo ancora troppo poco, né della gestione mediatica della stessa (diffusione di stralci di conversazioni intercettate da parte dei giornali, non sempre attinenti all’inchiesta).
Il quesito di questa breve riflessione è molto più astratto e va al di là della vicenda specifica. La domanda che mi pongo è: il tifo è legato al comportamento morale della propria squadra? Si può smettere di tifare quando non ci si ritrova più nei valori dei colori che si è scelti da bambini?
Proprio dopo Calciopoli, il giornalista Marco Travaglio disse che “da ragazzino ero proprio tifoso, nato da famiglia bianconera: me l’ha trasmessa mio padre. […] Poi è arrivato Moggi e mi ha fatto passare tutta la passione: non credo più alla genuinità del calcio da quando ho visto Moggi in attività alla Juventus”.
D’altro canto alcuni tifosi laziali si sono detti stufi di essere identificati con alcuni idioti fascisti e antisemiti che la domenica siedono in curva all’Olimpico prendendo in giro Anna Frank, facendo battute sui campi di concentramento o fischiano i calciatori neri (e che hanno aggredito sui social il calciatore Elseid Hysaj perché aveva cantato “Bella ciao”). Così hanno fondato un’associazione che si chiama “Lazio e Libertà” e che nello statuto si propone come “un punto di riferimento, non solo a Roma, per tutti quanti credono che il tifo sportivo debba sempre manifestarsi dentro il perimetro dei valori democratici e civili sanciti solennemente dalla nostra Costituzione”.
Associazione a parte, il tifo è un atto primordiale. Alcuni ricercatori dell’università di York hanno misurato le risposte cerebrali di due gruppi di tifosi di calcio. È emerso che i tifosi dello stesso gruppo tendessero ad avere correlazioni più elevate nelle regioni cerebrali frontali e sottocorticali, proprio quelle regioni coinvolte nella valutazione e nell’interpretazione dell’input sensoriale.
Ergo, l’appartenenza al gruppo ci porta valutare e interpretare quello che succede al gruppo stesso tenendo conto dell’influenza delle valutazioni degli altri membri del gruppo.
Un atteggiamento naturale, in quanto primitivo, animale. Poi subentra la responsabilità individuale, quell’input della coscienza che dovrebbe portare ciascuno di noi a valutare in maniera distaccata i comportamenti del gruppo.
Effettivamente così tifare una squadra di calcio (o votare un partito politico) diventa più noioso. Ma forse più giusto.
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Foto: pexels.com
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Marcatura A Uomo ritorna sabato 3 febbraio
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Su questa cosa ho idee molto precise e lascerò un mega commento, un trattato scientifico potrei dire. Il legame detto tifo, quello più vero che regge il calcio, si crea con una maglia o con una città e non si cambia per vicissitudine contingenti che riguardano faccendieri, profittatori che se ne appropriano. E neanche per frange di tifoserie odiose. Nessuno tifa una squadra perché gli piace il presidente, o i tifosi che condividono la sua squadra. I presidenti passano, e anche i tifosi, chi cambia squadra per queste ragioni non è un tifoso, può essere una brava persona sensibile agli scandali ma non è un tifoso, e chi è tifoso della squadra infangata dai suoi amministratori può essere indignato nella stessa o maggiore misura di chi non è tifoso. Se il tifoso si è affezionato alla maglia non ne sceglie un’altra, perché la scelta di chi tifare non si pianifica razionalmente a tavolino confrontando le offerte sul mercato. Le maglie che io tifo non hanno colpe, sono semmai delle vittime, così come i giocatori che le indossano. E se cambiassi squadra che garanzie avrei che i faccendieri non li trovo anche in altre parrocchie? Anche i profittatori cambiano squadra se gli conviene e questo opportunismo li distingue dal tifoso che non sceglie per opportunismo. Il calcio è contaminato di più laddove girano più soldi, il problema è questo e non si risolve cambiando squadra ogni volta che la nostra è investita da uno scandalo societario. Posso capire qualcuno che dice non seguo più il calcio perché non è più il mio calcio, quello che ho amato un tempo, ma bisogna essere anziani per dirlo e io a volte lo dico, ma se uno è stato tifoso, quando vede quei colori, continuano a brillargli gli occhi anche se non si riconosce più nel calcio di oggi.
Forse determinate situazioni si creano per una sindrome stranissima, quella di crearsi una sorte di impunità perchè si è al “potere”. Capita anche in politica.. Tornando all’articolo amiamo appassionatamente i colori, la loro storia…e lo dice un “granata da legare” come me.