Gli anni e i fatti con cui si fece l’unità d’Italia sono noiosi solamente se spiegati a scuola: dall’insurrezione di Milano alla breccia di Porta Pia ci furono molti episodi interessanti, forse eroicamente non rilevanti, ma sicuramente curiosi e interessanti che aiutano a capire come e perché siamo diventati italiani.
Già dal 1821 vi erano stati moti insurrezionali popolari nei principati italiani e nelle provincie dello Stato pontificio lontane da Roma, perlopiù erano state proteste contro tassazioni inique ed esorbitanti, contro leggi troppo restrittive e contro la fame, ma tutte di scarso successo.
Il Risorgimento italiano pare sia iniziato il Capodanno del 1848, quando i milanesi decisero lo sciopero del fumo e smisero di fumare.
Basta con sigari, pipe e tabacco da masticare, le sigarette non esistevano ancora; sarebbero comparse soltanto durante la guerra di Crimea quando, scarseggiando le forniture di pipe in dotazione ai soldati, questi si arrangiarono utilizzando la carta che avvolgeva la dose di polvere da sparo per i fucili ad avancarica, la “cartuccia” propriamente detta, per avvolgere il tabacco sfuso e poterne godere.
In quel primo giorno dell’anno 1948 i milanesi protestarono silenziosamente, ma clamorosamente, contro il governo austriaco: il tabacco era fortemente tassato da imposte dirette e indirette stabilite dall’occupante straniero e smettere di fumare gli toglieva introiti importanti!
I milanesi aspiravano, è il caso di dirlo, a non più essere ben governati, con tasse neppure esose, nuove strade e vie di comunicazione efficienti, uffici pubblici solerti e funzionanti, ma ambivano a governarsi da soli o, magari a essere governati dai Savoia o, addirittura dal Papa, ma, comunque da altri italiani: magari, come poi accadde, peggio, ma in libertà e con la nostra innata approssimazione.
Il Pontefice, oltre tutto, era stato il primo a dare una parvenza di Costituzione ai cittadini romani e qualche riforma politica abbastanza ampia, per cui i molti cattolici convinti si illudevano che solo il Papa potesse, democraticamente, governare l’Italia unita dal meridione al nord: fumo negli occhi del popolo è ben il caso di dirlo… ma ai milanesi sarebbe bastato cacciare gli austriaci.
Si dice che le rivoluzioni le inizino i ragazzi come fu nel 1917 in Russia quando furono i primi a cadere sotto la fucileria zarista, o nel 1943 quando a Napoli insorsero contro i tedeschi e pure nel 1956 a Budapest con bottiglie molotov contro i carri armati sovietici: “ragazzate” le chiamò Carlo Cattaneo quando i giovani milanesi insorsero per primi, ma il 18 marzo 1948 fu l’inizio della storia dell’Italia unita.
Oltretutto si aspettavano armi dal Piemonte che non sarebbero mai arrivate perché i Savoia, pur avendole promesse, avevano più paura della libertà di altri italiani che non degli austriaci.
Nonostante tutto diciottomila uomini austroungarici ben armati e addestrati non riuscirono a piegare una popolazione guidata da capi improvvisati al momento, come il Manara, che trasformò gli scontri in guerriglia urbana, quasi moderna, con acqua e olio bollente e tegole gettati da finestre e balconi, di selciati divelti e lanciati, fascine di legna di tre metri di diametro legate e bagnate fatte rotolare come barricate mobili a difesa dei pochi fucili a disposizione, ma che pian piano raggiunsero Porta Tosa, divenuta poi non a caso l’attuale Porta Vittoria, facendo indietreggiare le truppe avversarie.
Dal tetto del suo osservatorio un astronomo, puntando il telescopio, guidava gli insorti inviando staffette a riferire delle posizioni nemiche.
Al tramonto del 22 marzo i generali austriaci che, come tutti i comandanti, avevano studiato la guerra sui manuali e non le rivoluzioni popolari, abbandonarono Milano ai milanesi.
La Storia si è incaricata di dirci in seguito che non tutti i comandanti avrebbero capito quella lezione.
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Carlo Alberto di Savoia fu preso alla sprovvista dagli avvenimenti milanesi.
Non per nulla il suo appellativo popolare era “re tentenna” in quanto non riusciva a prendere decisioni in tempi rapidi e utili.
Era un bell’uomo, ma alto più di due metri e molto allampanato (la sua branda da campo di lunghezza smisurata è ancora oggi custodita presso il Museo del Risorgimento di Torino), con la testa a forma di cipolla, e anche per questo non passava inosservato quando passeggiava caracollando in via Po, dicono vestito con lunghi pastrani che accentuavano la sua postura, diventando una manna per i crudeli caricaturisti dell’epoca: nel 1948, allo scoppio della guerra aveva cinquant’anni e solo più uno da vivere a disposizione.
Per non essere da meno del re di Napoli e del Papa nello stesso anno, il 4 di marzo, aveva concesso con molti dubbi la Costituzione di cui subito però si era pentito.
Ostile all’Austria poteva contare, come da tradizione sabauda, su un esercito di novantamila uomini con una buona cavalleria e discreta artiglieria, ma come sempre in Italia, comandato da pessimi generali.
Dichiarò la guerra il 23 marzo quando fu sicuro che i milanesi già stessero festeggiando la ritirata di Radetzky verso Verona.
Era tutto tranne che uno stratega militare: tetro, poco incline al riso, meticoloso, pignolo e bigotto, si occupava piuttosto della partecipazione dei soldati alla messa e se avessero fatto la comunione, se tenessero in ordine l’uniforme e le attrezzature, se fossero pettinati e con i baffi regolamentari, ma per fortuna si occupava anche del vino e del cibo per le sue truppe!
Partendo da Torino ci mise quasi una settimana a varcare il confine delineato dal Ticino e non si spinse oltre Treviglio e Sant’Angelo Lodigiano, controllando il nemico da lontano, ma senza raggiungerlo: non si sa mai!
Due giorni durò il consiglio di guerra per decidere la strategia più modesta e più facile, ossia di seguire gli avversari da lontano avanzando e attestandosi sul Mincio, confine tra Lombardia e Veneto, preoccupandosi solo di incalzare quegli austriaci in ritardo perché occupati a rubare e razziare vettovaglie.
Solo l’ 11 giugno attraversò il fiume a Goito, quando ormai il grosso degli stranieri era già a Verona e la sorpresa e il vantaggio dovuti della sollevazione di Milano sfumati.
Il primo fatto d’armi significativo perché vittorioso fu la battaglia di Pastrengo, ma Carlo Alberto non seppe o non volle sfruttare la situazione favorevole, preoccupato da una possibile risposta di Radetzky, disse in francese, lingua che parlava meglio dell’italiano, ai suoi subalterni: “Per oggi è abbastanza.”, perdendo una buona occasione per chiudere in anticipo di anni il Risorgimento.
Gli Austriaci fuggivano e vi erano ancora due ore di luce, si sarebbe potuto inseguirli fino all’Adige e lì bloccati non avrebbero avuto scampo, ma Carlo Alberto, che aveva valorosamente combattuto come semplice soldato, perse una grande occasione, commise l’errore, richiamando le schiere che inseguivano il nemico, di salvar Radetzky da un disastro che avrebbe deciso delle sorti della guerra; non seppe decidere per l’azione giusta al momento giusto.
Queste operazioni costarono ai piemontesi 15 morti e 90 feriti, agli austriaci 24 morti, 147 feriti e 383 prigionieri, altre armi, altri tempi. (1. continua…)
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Foto: pixabay.com
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Apostata Per Vocazione ritorna a settembre 2023
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Non sapevo di questo sciopero del fumo, oggi invece ai fumatori viene vietato il loro vizio all’aperto. Come cambiano i tempi!
Non ero al corrente dello sciopero del fumo del 1848. É sorprendente scoprire che un bene non di prima necessità, pesantemente tassato, abbia potuto gettare le basi per una rivolta popolare. Più che scoprire come siamo diventati italiani sarebbe interessante però capire perchè, in tempi moderni, l’aumento delle tassazioni su ogni bene (anche di quelli più vitali che non le sigarette) siano accettati passivamente dagli italiani; oserei dire senza nemmeno eccessivi malumori.
Nel sottotitolo dell’articolo hai dichiarato che farai un po’ di “controstoria” ed io, prendendoti alla lettera, mi sento allora autorizzato a proporre qui una mia personale interpretazione.
In un precedente commento a un articolo della rubrica Il Mito Ostinato, avevo già narrato dei mio triste rapporto con la Geografia; aggiungo qui che, chi assisteva alle mie interrogazioni avrebbe potuto scommettere sull’esistenza della Geografia Dadaista o pensare che io fossi un membro dell’OuLiPo. Ebbene, per quanto riguarda la conoscenza della Storia le mie competenze non vanno molto oltre; avviso quindi che, valendo il famoso detto “chi non ha testa, abbia gambe”, di me, in materia di conoscenze storiche, si potrebbe serenamente dire che sono un asino (e pure tristemente zoppo) Insomma, quello che sto per dire ora non si trova nei libri di Storia: lettore avvisato, mezzo salvato.
Oltre a quanto già noto dall’esposizione di Guido, nel ’48 avvennero anche diversi episodi che confermarono un’ipotesi che cominciava a serpeggiare tra chi si occupava di medicina. Un soldato distratto, prendendo la cartuccia di avancarica del suo fucile e vedendola avvolta con la stessa carta che i commilitoni utilizzavano per rollarsi le nuove sigarette, se l’accese tra le labbra rimanendo sfigurato dallo scoppio che ne derivò. Quello fu il primo caso accertato, ma durante le Cinque giornate, a Milano, nella confusione che inevitabilmente si scatena quando avvengono moti popolari, l’incidente tornò a ripetersi, più o meno con le stesse modalità anche tra la popolazione civile. Questi fatti furono, per i dottori, la prova inconfutabile che il fumo fa male! Oggi le sigarette non scoppiano più, ma resta il fatto che sono dannose alla salute e per convincere il consumatore, le confezioni adesso riportano indecorose immagini di cadaveri all’obitorio o di tumori dissezionati, tutte corredate da funeree scritte del tipo: “il fumo danneggia i tuoi polmoni” o similari. Sul pacchetto delle sigarette che sto fumando oggi, ad esempio, c’è la foto di una giovane ragazza nell’atto di tossire e che regge, poco discosto dalla bocca, un fazzoletto su cui sono bene in evidenza tre grosse macchie di espettorato sanguinolento; qualche mese fa l’immagine era invece quella di due coppie di polmoni affiancati: due polmoni sani vicino a quelli di un accanito fumatore; questi ultimi, per forma e colorazione ricordavano un grosso pollo arrosto appena tolto dallo spiedo, in aperto contrasto con quelli sani, di un bel rosa pallido. Ora noi fumatori sappiamo tutelarci: siamo in grado di estrarre da quei pacchetti la nostra dose di veleno e osservare quelle immagini senza percepirne l’orrore, ma i bambini? Io non ho nipotini che circolano per casa ma immagino quante possano essere le famiglie in cui certe figure raccapriccianti stazionano su mensole e tavolini accessibili ai ragazzini; d’accordo che dovrebbe essere cura dei genitori nasconderle, ma chi ci garantisce che tanti minori in tenera età non vengano mai a contatto con immagini che sono artatamente studiate per essere conturbanti? E tutto questo avviene per una inutile deterrenza, perchè a noi fumatori certa iconografia non fa proprio un baffo! Aggiungo che questo Stato iperprotettivo, per ogni pacchetto di sigarette del costo di 5 euro, ne incassa 3,80 tra accisa e IVA (questi sono dati del 2018; li ho trovati in rete ma non ho approfondito maggiormente) Sarebbe veramente il caso di cominciare a fare tutti come fecero i milanesi nel 1848!
C’è poi una frase dell’articolo di oggi, Guido, che però mi sembra stonata: dove asserisci che il 18 marzo 1848 è l’inizio della storia dell’Italia unita… non discuto la data, ma proprio la dicitura “Italia unita”. Alla luce di quanto vediamo da anni e ancora oggi, dopo l’ultimo rivolgimento di governo, non mi sembra di percepire una grande unità di intenti e di programmi, quando addirittura tra i tre partiti dell’attuale maggioranza sono più i contrasti che le idee condivise.
E quando dici: “… che aiutano a capire come e perchè siamo diventati italiani” io ho un moto di ripulsa; Io “italiano” non lo sono diventato: sono nato già italiano e me ne adonto. Non mi sento figlio nè fratello di quest’Italia vergognosa, misantropa, razzista e menefreghista! Quando se ne parlava, io ero contrario all’idea di cambiare l’inno di Mameli con un altro più “figo”, ma ora ho cambiato idea; questo è avvenuto perchè già dalla prima strofa ora mi ribolle il sangue. Il nostro inno inizia nominando letteralmente il partito della Meloni e di altri soggetti anche peggiori; è diventato assurdo anche per il contenuto: Fratelli d’Italia … stringiamci a coorte, siam pronti alla morte… certo, magari un po’ più pronti per la morte di un avversario! Due settimane fa il senatore del PD Bruno Astorre, ha posto volontariamente fine alla propria esistenza buttandosi da una finestra e Giorgia Meloni nelle solite dichiarazioni di rito “salutava un avversario appassionato e leale…” Vi è mai capitato di sentir definire appassionato e leale un avversario politico dagli scranni del Parlamento? laddove quando sono in vita si scambiano perlopiù insulti e contumelie? Gli antagonisti diventano leali solo dal tavolo dell’obitorio? Ah Italia, vituperio delle genti! ma non solo di quelle in vita, visto che siamo stati testimoni, pochi giorni or sono anche del vituperio dei morti nel naufragio di Cutro.
Comunque, se fosse proprio impossibile sostituire completamente l’inno nazionale si potrebbe perlomeno modificarlo un pochino. Considerata l’ingente somma che i mercenari del gruppo Wagner sembra abbiano messo a disposizione per la testa di Guido Crosetto, (ministro della difesa nell’attuale governo) potremmo almeno intitolare il nostro inno: Fratelli di taglia…
Ok, mi trattengo e non vado oltre; come Carlo Alberto di Savoia, che rinunciò ad incalzare Radetzky, anch’io a chiusura di questo commento dico: “per oggi è abbastanza”, con la consapevolezza di essermi perso una buona occasione per dire qualcosa di più sensato. Tutto quel che è “contro” mi induce sempre un’eccitazione nervosa e può succedere che la controstoria (e la controattualità che oggi ne è derivata), mi facciano proprio sbroccare!
Nota: nel canto del conte Ugolino Dante dice: “Pisa, vituperio delle genti” e non Italia. Ho fatto mia quell’invettiva adattandola al mio pensiero.
Lo Statuto albertino è la prima opera legislativa che dichiara il Suddito meritevole di tutela anche nei riguardi dello Stato. Sono garantiti la difesa dinanzi ai Tribunali amministrativi, contro provvedimenti ritenuti lesivi dei suoi diritti commessi dalla pubblica amministrazione. E’ la fine dello stato assolutistico e del dogma ecclesiastico. Frutto della lenta, ma costante opera dei giuristi illuminati, il cui precursore fu Cesare Beccaria con il suo rivoluzionario saggio: “ Dei delitti e delle pene”, nel quale affermò l’antigiuridicità della confessione attraverso l’uso della tortura e l’inutilità della pena di morte per i condannati, proprio per il rischio reale di condannare un innocente.
“Meglio cento colpevoli liberi che un innocente in galera”. In molti Paesi dove la pena di morte è praticata come deterrente del delitto, non si è mai raggiunto il risultato desiderato e, troppe volte, si è sacrificata la vita di un innocente, o, peggio, si sono celebrati processi farsa per liberarsi da degli oppositori, assassinandoli. Criminali gli aguzzini, criminali i loro giudici, criminali gli esecutori. Il diritto abita altrove. Tanto per la cronaca da qualche settimana si parla anche in Italia dell’inutilità del carcere per l’espiazione della pena. La promiscuità nelle carceri crea nuovi manovali del crimine, o disperazione autolesionista. Le misure alternative alla detenzione sono il modo migliore per restituire dignità e voglia di riscatto sociale al detenuto ed alla sua famiglia.
Credo si sia arrivati alle conclusioni terapeutiche del dott. Basaglia che riuscì a far approvare la legge n.180 del 1978 sull’apertura dei manicomi. Terminò l’abbruttimento e lo scempio di corpi abbandonati a sé stessi nei nosocomi psichiatrici, abbruttiti e resi folli dalla detenzione, dalla bulimia, dalla disperazione di non poter avere una vita libera, misera, ma libera. Erano tempi pieni di elettroshock di lobotomie, di inenarrabili torture con psicofarmaci su creature che diventavano folli, quando realizzavano lucidamente in che girone infernale erano incappati. Per molti di loro la soluzione estrema era il solo modo di liberarsi dall’angoscia di sottoporsi al bisturi, o alle scariche elettriche.
Ho gli occhi pieni di lacrime e non riesco a scrivere altro. Scusatemi.
Per Claudio riporto appunti che ho rilevato sul web e che condivido senza alcun commento.
L’immediatezza dei versi e l’impeto della melodia lo resero subito il canto più amato dell’unificazione: non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò proprio al Canto degli Italiani – e non alla Marcia Reale – il compito di simboleggiare la nostra Patria, ponendolo accanto a God Save the Queen e alla Marsigliese.
L’ufficializzazione del “Canto” quale inno nazionale della Repubblica Italiana, avvenne il 12 ottobre 1946.
Il poeta Mameli
Goffredo Mameli dei Mannelli nasce a Genova il 5 settembre 1827.
Studente e poeta precocissimo, di sentimenti liberali e repubblicani, aderisce al mazzinianesimo nel 1847, anno in cui partecipa attivamente alle grandi manifestazioni genovesi per le riforme e compone Il Canto degli Italiani.
Da quel momento in poi dedica la propria vita di poeta-soldato alla causa italiana: nel marzo del 1848, a capo di 300 volontari partecipa alle cinque giornate di Milano, tornato a Genova, collabora con Garibaldi e, in novembre, raggiunge Roma dove, il 9 febbraio 1849, viene proclamata la Repubblica. Sempre in prima linea nella difesa della città assediata dai Francesi, il 3 giugno è ferito alla gamba sinistra: morirà d’infezione a soli ventidue anni.
Le sue spoglie riposano nel Mausoleo Ossario del Gianicolo.
Il musicista Novaro
Michele Novaro nasce il 23 ottobre 1818 a Genova, dove studia composizione e canto.
Secondo tenore e maestro dei cori dei Teatri Regio e Carignano di Torino nonché convinto liberale, offre alla causa dell’indipendenza il suo talento compositivo, musicando decine di canti patriottici e organizzando spettacoli per la raccolta di fondi destinati alle imprese garibaldine.
Di indole modesta, non trae alcun vantaggio dal suo inno più famoso, neanche dopo l’Unità.
Muore povero, il 21 ottobre 1885, dopo aver affrontato difficoltà finanziarie e problemi di salute. Per iniziativa dei suoi ex allievi, gli viene eretto un monumento funebre nel cimitero di Staglieno, dove oggi riposa vicino alla tomba di Mazzini.
Dall’infanzia di una nazione si possono capire molte cose della storia come dall’infanzia di una persona si possono capire alcuni tratti essenziali della sua personalità.
E l’infanzia dell’Italia moderna è stata più complessa di quanto non si studi e conosca.
Forse contraddicendo Gaber un modo per sentirsi italiani (il “per fortuna o purtroppo” resta…)