Enea Solinas Enea Solinas
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due domande meno scontate
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Dopo cosa? E dopo quanto?
How long… per quanto tempo ancora…?
In tempi di pandemia, infodemia, crono-programmazione economica, sociale, transizione ecologica, logica incerta, ragionevoli trasfigurazioni possibili dell’immaginario (pre)dominante, queste sono 2 domande meno scontate. Tempo fa, in una precedente rubrica, ironizzavo semi serio su come le banali Coma stai? Come va? Che ci si scambia tra amici e conoscenti non fossero affatto due domande scontate, e risuonassero di significati leggermente distinti. Questo secondo un sentire personale, ovvio. Le domande c’entrano con il nostro modo di vivere il tempo.
Le domande meno scontate le rivolgo innanzitutto a me, dopo un periodo esistenziale costellato di crisi e deliri pazzeschi. Una persona che occasionalmente frequenta(va) lo stesso gruppo (idealmente, una comunità) asserì una volta dicendo: ho fatto cose pazzesche per dimostrare alla gente che non sono pazzo. Era presente di passaggio, come spesso gli capitava. Un modo di essere, prima che di esser-ci. Chi mi ha seguito in passato su bradipodiario (o altrove o in un altro-dopo) sa che frequento e ho frequentato associazioni che operano nell’ambito della salute mentale. Beh, negli abissi della follia ci sono caduto più d’una volta prima e dopo la pandemia. Ed è a questo periodo che rivolgo le domande. Spesso la convinzione era tacitamente urlante e l’asserzione era contraria, paradossale: come fare a dire e convincere che sono pazzo? Cosa devo combinare? E poi chi di noi non lo è, a suo modo?
Un po’ di retorica non guasta. E il passato è passato, anche se inevitabilmente lascia tracce nel vissuto.
Preso un po’ di sano distacco da me stesso, e dal troppo pieno che mi pervadeva, ho provato a osservarmi, e ad ascoltarmi. Mi sono reso conto che ho avuto molta paura, e che ho fatto – e comunicato – cose pazzesche per dimostrare alla gente che non sono pazzo. E anche se tra queste alcune sono tutt’altro che meritorie, non intendo “pazzo” nel senso con cui comunemente s’intende questo termine, che assume un significato del tutto soggettivo.
Ebbene, prima e durante e dopo i vari lockdown, coprifuochi, riaperture, queste sono due domande meno scontate sono a più riprese ricomparse. E non ho più cercato risposte certe, verificabili, come fossi sotto processo. Qualcosa semplicemente accade. Ed è accaduto, e le ricostruzioni sugli eventi sono parziali, e aleatorie.
Il virus è un essere naturale. Appartiene a una categoria biologica a sé. Nel nostro corpo ospitiamo parecchi esseri alieni (come i batteri). Un virus si propaga per ospitalità (non richiesta), essendo ospite ci fa ospiti e propagatori. È nella sua natura. Col paineta ci comportiamo pure peggio, ma questo è un altro discorso e i più cinefili ricorderanno la metafora usata dall’agente Smith. L’ansia del dopo virus è rimasta inconsistente, hanno prevalso il rumore e l’intasarsi di confusione. Ma non solo, questo evento globale ha dato l’opportunità di riflettere su molte questioni che prima apparivano scontate. O che semplicemente apparivano per ciò che non sono, illusioni, dunque, più che convinzioni od opinioni sulle quali conversare, dialogare.
Scrivere delle cronache del dopovirus è una sfida d’immaginazione che vuole riguardare diversamente ciò che esiste già, il presente attuale. Ma pure ricordare e storicizzare quel che è stato per comprenderlo meglio, e non soccombere alle narrazioni imperanti, scritte da pochi (l’1% più ricco del pianeta?). Osservare diversamente ciò che è possibile, e agire collettivamente. Come un’umanità ospite in ciascuno di noi.
Inventare. Fare l’inventario dell’esistente, sentirlo pulsare, come un’arteria che trasporta e nutre i tessuti corporei. Che ritesse le trame logore del tessuto sociale, offrendo la possibilità di riflessione e reinvenzione di sé e delle relazioni che abbiamo con gli altri, col mondo.
Che nel frattempo non ha lesinato, colpi bassissimi alla pace, all’attitudine alla comprensione, all’accoglienza. Riproponendo uno spettacolo pietoso di millenarie paure, soprusi, interessi particolari per il dominio del forte sul debole. Mi sono sentito doppiamente parte in causa in questa lacerante ambivalenza. Con l’urgenza di trovare o porne limiti. O alternative.
Il mondo è bello perché vario, vivaddio imprevedibile. E pure strano non di rado, anche se all’apparenza sembra tutto normale. E ciascuno ha la sua normalità.
Sono da poco uscito da due settimane di ricovero coatto, dopo una brutta crisi. Mi sto curando diversamente e non trascuro ciò che è trascorso e ha intasato i mei pensieri (men meno il delirio), che ci rende irrazionali in un mondo in cerca di certezze assolute e di definizioni settarie, divisive.
Ho dissociato il discorso dissociandomi dal mio stesso sentire, e parlare esprimermi, urlando mormorii, tacendo echi che rimbombavano gesti di una tenerezza indicibile.
Ho sentito gridare soccorso e osservato persone interrogarsi sulla loro condizione, di co-reclusi in reparto. Ho dialogato. Sono rimasto in ascolto. Ho scoperto gli Alphlaville e una loro hit del passato Big in Japan. Ho visto la distensione carica della stessa energia della tensione più insostenibile. Stati di coscienza resi più fragili di quanto non ci si senta.
Non mi interessa congetturare sull’origine del virus, distinguerlo dalla patologia (il Covid19), accampare analisi sociologiche su come le emergenze sono state gestite. Mi interessa sottolineare l’importanza di certi istanti durante i quali, quale che sia la tua sofferenza, quella altrui diventa più presente. Ma non eterna e irrimediabile. Mi interessa fare ammenda canalizzando la potenza urtante, violenta delle crisi che ho avuto e scatenato, in qualcos’altro, di più proficuo, di più bello. A partire da questa condizione convissuta, comune, che ci fa percepire il qui ed ora come un transito. Relativizzare i dopo, che sono già presenti in divenire.
La sensazione stessa di essere vivi, presenti a sé stessi, al di là di ciò che si comunica, che in qualche misura è determinante sul come si sta con gli altri. Non è un fatto scontato. Le cronache raccontano il presente. Quelle del dopovirus si aprono ai ricordi e alle diversità del futuro. Perché il virus è già passato.
Un istante fa.
E ha perso il treno, perché per una volta in questo paese è stato puntuale. È partito in orario.
Forse è un altro triste segno della retorica dell’uomo Forte, e della malsana voglia di fascismo che semina odio in rete, per le strade e le piazze. Pericoli da cui difendersi, attitudini da condannare e abiurare.
Anch’io nei miei momenti migliori (o peggiori a seconda del punto di vista) ritengo di essere sempre puntuale, e precisissimo, sino alla maniacalità. È che non vado mai a tempo, che è un concetto molto noioso. Prima o poi passeranno anche queste due domande meno scontate, e forse le risposte ne proporranno di nuove, ancor meno scontate.
Un presente diverso e meno penoso e brutale, questo non potrebbe essere un buon inizio: alla prossima.
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Cronache Del Dopo Virus ritorna mercoledì 17 novembre
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Semplicemente ben tornato Enea!