di Enea Solinas
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Ho avuto un mal di gola sospetto, il caro-virus?!
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E il pensiero è corso immediatamente alla rielaborazione ulteriore di questa rubrica. Ho calcolato a quanti sono i mesi passati dall’ultima ospitata del virus.
Insomma benché la pandemia sia finita da tempo (almeno nei termini ufficiali e istituzionali della OMS) ho temuto di essere un nuovo focolaio. In effetti avevo anche un po’ di febbre.
Poi è passata col supporto del miracoloso Paracetamolo (praticamente un nome da personaggio da epica picaresca di questo inizio millennio) con un dosaggio anche piuttosto basso, tutto rientrato nella norma.
O nella normatività. O nella normalità. Insomma in quella gabbia che ci spinge ad essere tutti un po’ sullo stesso equilibrio e omogenei nel corpo e nella psiche. Socialmente ben disposti ad adattarci a qualsiasi disastro, senza immaginare una divergenza, un desiderio conseguente.
Quando tornammo nella normalità capimmo che la normalità non era la cura, ma il problema.
Questa rubrica ha disseminato riflessioni e metafore. Visioni a cui aderisco per contemplazione del tempo attuale e che tradiscono in parte la mia indole.
Voglio omaggiare la mia parte folle.
Nel futuro, proseguirò un anomalo percorso formativo intriso di improvvisazione e metodo intuitivo. Mi dedicherò con diletto allo studio e alla lettura, passioni lenitive e acquietanti.
Inizierò a correre, perché la ginnastica a corpo libero la riservo a quando diventerà una attività seria e scanzonata, ma non ridicola ai limiti dell’auto-parodia.
Mi spingerò ad adeguarmi a certi standard educativi solo per esprimere il lusso di averli rinnegati per ricercatezze poetico metafisiche prioritarie.
Parallelamente studierò e cercherò di apprendere altre lingue, alcune anche antiche (non chiamatele morte). Joyce diceva che ogni lingua scritta è una lingua morta. Tale è il lascito nella lingua parlata di Greco antico come di Latino che è un disconoscimento tanto della loro vitalità, quanto dell’inquietante analogia della scrittura con ciò che è mortale o fantasmatico quasi spirituale.
Fonderò un’associazione giuridicamente riconoscibile. Senza sede e senza soci reali. Solo eteronimi di me stesso.
Avrà pochi elementi che raccolgono attorno a sé nuclei di senso storico, metastorico e simbolico. Il pane (comunanza), i libri (le differenze) il mar Mediterraneo (entità storico geografica che racconta senza parole ma con dei flussi e correnti esodi e cataclismi, epifanie e meraviglie, tragedie e giochi, brutture e bellezze). E di questi poli opposti si fa metafora e ponte, non muro. E anche voce. Voce che richiama ad una corresponsabilità e ad una impossibile com-mediterraneità. Le civiltà del mediterraneo si sono commistionate e combattute fin dall’inizio dei tempi. La prima Nave portò con sé l’alterità e la tragedia di una madre che si ciba della sua stessa prole.
E un segreto.
E questo segreto fluisce ancora.
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Immagino l’isola di Lesbo con il suo avamposto dell’ipocrisia di accoglienza europea dell’hot-spot gemellarsi con tutti gli hot-spot che ci hanno tamponato per capire se eravamo positivi o negativi al virus. Il virus ci ha insegnato che siamo tutti biologicamente migranti e trasmigranti. Ciascuno, metaforicamente o meno percorre un suo viaggio. Vive una Odissea un ritorno che sembra impossibile. Anche io. Io navigo nella memoria e ho visto crollare l’immagine di un veliero, e trasformarsi in una zattera. Ma quella zattera conduco abbandonandomi al flusso non sempre compiacente e benevolo dei venti. Con qualche colpo di timone. L’io si sa vuole il suo posto in palcoscenico, ma non è il padrone del mare. Ogni marinaio sa che il mare è un amico tradotto in nemico. Questa non è mia: è di Bono Vox. Che ha una voce incartapecorita rispetto ai vecchi tempi, ma ancora tenace e probabilmente incapace di abbandonare lo show-biz.
Probabilmente il mio canto si è ridotto a silenzio. Il mal di gola era un usuramento delle corde vocali.
Userò la lingua morta della scrittura per immaginare il suono e il mio corpo sarà un mediterraneo che tradurrà col solo gusto dell’imitazione. Per tenermi compagnia nella mia solitudine. Emergeranno idoli primitivi, fiere e qualche mostro creduto ucciso da valorosi Eroi.
Sono così nostalgico che preferirei riconoscermi in quei poemi del ritorno (Nostoi) di cui rimangono scarsi frammenti. O talvolta tracce desunte da opere altre. Come scovare parti di sé nelle personalità altrui, metaforicamente.
Ho inteso che Diomede compagno di Ulisse sbarcò in Italia molto prima dell’Enea eroe posticcio e virgiliano, migrante intermediario tra una rovina e un impero, in realtà da sempre nostalgico del passato perché abitatore del futuro, della sopravvivenza. Potrei solo raccontare al tempo perfetto e se usassi il presente sarebbe una finzione scenica, un’ipocrisia consapevole, un recitare (giocare) la propria parte. Forse partecipare, se non fosse che nella complessità e imperfezione della Democrazia il rischio della teatrocrazia sia così come lo aveva risignificato Bobbio (desumendolo da Nietzsche), è dietro l’angolo.
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Ebbene immagino Diomede scopritore e fondatore della Puglia – il primo pugliese della mitologia classica – come un incompetente marinaio che in una notte di luna nuova (cioè col cielo illune e stellato) si è lasciato andare ascoltando non le sirene ma i vagiti di quei volatili che nidificano presso certi faraglioni. Tali volatili si chiamano diomedee non a caso e il verso dei loro pulcini è simile ad un vagito umano. L’illusione di trovarsi vicino ad un porto sicuro ha portato Diomede a distruggere la sua precaria imbarcazione sull’alto faraglione.
È solo una ricostruzione letteraria che raccorda e tesse frammenti sconosciuti di un ritorno.
È una metafora della fragilità di certi viaggi tra mare e terra.
Seguire il proprio desiderio a volte ti fa sentire voci che ti riportano nel ventre materno della Storia. Ovvero nel qui e ora.
Sembra un paradosso ma il mio proposito è di vivere accompagnato da queste epifanie, senza ambire ad un porto sicuro. Voglio per usare un concetto inventato ed elaborato da Maria Zambrano, dis-nascere nel flusso del qui e ora, che contempla, si meraviglia, supera la comune apparenza, non senza drammi e sicuramente con inquietudine, il porto più sicuro il senso stesso del viaggio: viaggiare. (e qui è neanche troppo velata la citazione dal poeta De André).
Nascerà questa associazione?
Esiste già – è trasversalmente civile e resistente a questi tempi politicamente bui?
Nella mia psiche folle e secondo alcuni paradigmi “malata”, da prova di attenzione e resistenza e azione (non-violenta). Imperfetta, dobbiamo impararne e re-interprentarne i prinicipi di responsabilità e partecipazione.
Si può anche intendere come Utopia. È un luogo in tutti i luoghi ed è nessun luogo di essi. Non è la luna, non il desiderio di raggiungerla, anche se ad esso è annesso. Forse è il suo alone, talvolta invisibile. Nelle notti illuni e fragili.
Ma allo stesso tempo ha delle caratteristiche ben delineate. Spetta ciascuno di noi, saper riconoscerla, là dove accade.
Fine delle Cronache del Dopovirus
Buona estate e buona visione.
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Foto: pixabay.com
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