L’articolo è stato pubblicato il 21 novembre 2023
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Il “malessere” davanti al bello che viene dal passato, il malessere davanti all’iper-connessione moderna
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Dicasi sindrome di Stendhal quando si ha una sensazione di malessere diffuso associato ad una sintomatologia psichica e fisica, di fronte ad opere d’arte o architettoniche di notevole bellezza, specialmente se si trovano in spazi limitati. Perché si chiama sindrome di Stendhal? La prima testimonianza di manifestazioni di malessere di fronte ad un’opera d’arte o architettoniche ci viene riportata dallo scrittore francese Marie-Henri Beyle, in arte Stendhal, che nel 1817 lo raccontò nel suo libro “Roma, Napoli e Firenze”.
Non so se anche a voi è accaduto, visitando una città, oppure un luogo particolarmente affascinante, di avere le sensazioni che rimandano alla sindrome di Stendhal, personalmente ho vissuto in diverse occasioni qualcosa di simile, con l’aggiunta di una sorta di deja vu – qui ci sono già stato… pur essendo alla mia prima visita – come ad esempio a Firenze nei lontani anni ’70 e a Perugia trent’anni fa.
Quello che provo va oltre alla Sindrome, quello che mi lascia la visita di certi luoghi è una sensazione di gioia, e al ritorno di nostalgia, di malinconia. Nello specifico una recente visita mi ha particolarmente emozionato, tanto da pensare: non ci vivrei mai perché è troppo impegnativa per me, non sarei all’altezza di essere un suo abitante e vivere tra le sue piazze, vicoli, e superare l’imbarazzo alla vista dell’imponenti strutture architettoniche, che tolgono il fiato, giunte dal passato.
È doveroso aggiungere che questa visita ha avuto un più importantissimo, quella di viverla non da solo, ma con la mia compagna di vita, e con due amici carissimi, che hanno aggiunto valore a queste giornate.
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Queste sensazioni non si palesano solo nei luoghi abitati, parimenti nelle distese dei campi coltivati, in riva al mare, davanti alle cime delle montagne, e potrei continuare su tutto quello che è natura. Ritornando alla recente visita, ho avuto il piacere – sottolineo piacere – nel viaggiare su un treno regionale, attraversando piccoli comuni di campagna verso l’ora dell’imbrunire, quei colori, le ombre, le luci soffuse mi provocano un malessere difficile da descrivere, anzi capovolgerei la sensazione in benessere, viverle per me è straordinario, vorrei perpetrarle senza nessuna interruzione, il loro ricordo si trasforma quello sì in malinconia, mestizia, mancanza, vuoto, nostalgia… Come ovviare a queste sensazioni negative? Non limitarsi a conoscere, visitare, scoprire luoghi nuovi in occasioni particolari, ma replicarle il più spesso possibile, per evitare che la nostalgia prenda il sopravvento.
Diversamente al viaggio in treno all’imbrunire di una sera di novembre – con temperatura para-primaverile – devo raccontare di un’altro viaggio su una cosiddetta linea ad alta velocità (sic!) che in questo caso è solo di nome ma non di fatto – cosa che personalmente potrebbe anche andar bene, ma allo stesso tempo prende in giro i passeggeri comprese le loro tasche – l’aspetto che maggiormente ho mal digerito è quello che si vive in questi treni, la quasi totalità dei vagoni sono un’enorme ufficio, con tablet, pc, cellulari accesi, con conversazioni infinite, un brusio di sottofondo fastidioso. Ho provato disgusto e allo stesso tempo una sorta di compassione per chi è costretto a lavorare con queste modalità, che trovo inaccettabili.
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Se la sindrome di Stendhal può provocare problemi anche gravi, quantomeno nasce dalla vista e dell’aver vissuto qualcosa di bello, di meraviglioso, quella della iper-connessione – per scelta o obbligata – non ha nessun risvolto positivo.
Tu che per oltre due ore sei stato al telefono con gli occhi davanti allo schermo, t’informo che ti sei perso i colori del tramonto, le chiome degli alberi con i colori dell’autunno, i verdi campi coltivati e sopratutto il colore degli occhi di chi ti stava di fronte…
L’unico parlante e non connesso stava seduto davanti a me, con un forte raffreddore o qualcosa di simile, di cui ne pago le conseguenze ancora a distanza di due settimane… questi sono i rischi degli incontri reali… che comunque sia sono sempre da me preferibili.
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Foto di copertina: Giuseppe Rissone
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pochi giorni fa ho assaporato per pochi meravigliosi interminabili istanti questo spettacolo. Due papere selvatiche dal fiume avevano scavalcato in volo la cresta di palazzi, erano atterrate come due caccia e si erano posizionate davanti alla porta di ingresso di un forno che evidentemente era di loro gradimento. Aspettavano con una certa impazienza qualcosa che forse avevano motivo di aspettare. Mi sono messo in fila dietro di loro perché la fila è fila. E’ passato dietro di me un tale riverso nel suo smartphone, ho cercato il suo sguardo per condividere con un’occhiata questo spettacolo esilarante, ma non ha sollevato gli occhi dallo smartphone e si è perso tutto. magari lo vedrà su youtube e ci metterà un like se qualcuno avrà ripreso la scena (io certo no) e lo condividerà e lo renderà virale, ma per ora di virale c’è solo l’epidemica idiozia di dar valore solo a quello che esce da una schermo. Ognuno comunque riempie la sua vita di quello che vuole, finché si può scegliere
La follia dell’iper-connessione é plasticamente evidente nei fatti di cronaca, ne abbiamo prova in questi giorni, deve tutti commentano, si fanno intervistare, postano, quando sarebbe più utile il silenzio.
Nel mio piccolo l ho provato anche io una volta a Londra in gita estiva di studio. Per 8 giorni ho visitato musei e visto luoghi di arte e giunto al nono giorno ho sentito il bisogno di interrompere la serie di musei e stare tutto il pomeriggio a Oziare nel baretto del centro universitario che mi ospitava. C è da dire che ero in ottima compagnia…..