di Jacopo Giaiero (*)
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Questa rubrica è realizzata con l’indispensabile apporto di contributi esterni, è il caso dell’articolo che state per leggere, pubblicato lo scorso 9 novembre sul sito giovaniecomunitalocali.it ringraziamo l’autore e il coordinatore del progetto Francesco Picello per aver accettato il nostro invito.
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Ormai negli ultimi trent’anni la precarietà sembra essere diventata la condizione che coinvolge la maggior parte dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro in Italia. Quali ragioni hanno permesso la nascita del “posto fisso” e quali fattori hanno generato la precarietà odierna? Quanto hanno inciso i boom economici e le recenti crisi? Quanto contano il continuo aggiornamento e l’incremento della propria specializzazione per inserirsi professionalmente nel mutato scenario lavorativo?
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Precariato del giovane o giovane precariato? L’abbinamento del precariato ai giovani va dunque ascritto alla scarsa storicità del fenomeno.
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Il precariato è un fenomeno comunemente associato alle fasce più giovani della popolazione in età lavorativa, sebbene questa connessione sia principalmente un effetto dell’apparentemente recente insorgere del tema, più che un suo aspetto intrinseco. Non vi è infatti alcun interesse economico da parte del datore di lavoro nell’adottare una forma contrattuale a termine per le risorse più giovani, mediamente le più motivate e le meno onerose, vincolandosi invece per periodi indeterminati di tempo nei confronti di altri collaboratori, solitamente beneficiari di remunerazioni più elevate e potenzialmente meno avvezzi all’aggiornamento professionale. Tutto questo facendo salvi periodi di formazione lavorativa quali – utilizzando termini correnti e senza riferimento diretto ad eventuali omonime forme contrattuali – periodi di prova, apprendistato e praticantato che se utilizzati in modo consono rappresentano certamente un’esperienza arricchente ed efficace sia per il datore di lavoro sia per il collaboratore e non sembrano pertanto rientrare nel tema cui fa riferimento il presente articolo.
Limitatamente al nostro Paese, viene normalmente1,2 fatta risalire l’origine del precariato alla L. 24 giugno 1997, n. 196 “Norme in materia della promozione dell’occupazione”, nota anche come “Pacchetto Treu”, che andò a normare alcune forme contrattuali successivamente affermatesi con la definizione di “atipiche”. Senza soffermarci per il momento sulla presunta origine legislativa del fenomeno (e sui relativi oneri da addossare a questo o a quel legislatore), l’indicazione può essere utile dal punto di vista temporale: considerando l’ineluttabile ritardo con cui chi legifera cerca di tenere il passo delle evoluzioni sociali, potremmo individuare la nascita del precariato nel nostro Paese in meno di trenta anni fa. Le serie storiche fornite dall’ISTAT3 permettono di ricostruire la numerosità dei contratti di lavoro subordinato a tempo determinato dal 1993 in avanti, evidenziando che gli stessi sono gradualmente cresciuti, sia in numero assoluto sia in percentuale sul totale, con un movimento più marcato nel corso del biennio 2017-2018.
L’abbinamento del precariato ai giovani va dunque ascritto alla scarsa storicità del fenomeno (meglio contestualizzata nel prosieguo dell’articolo), che ha progressivamente coinvolto chi si è affacciato sul mondo del lavoro nelle ultime decadi, ma non è altrimenti collegabile all’età dei lavoratori interessati: la condizione, piuttosto, è quella di chi si ritrova per la prima o per l’ennesima volta ad avviare un nuovo rapporto di lavoro, ricomprendendo sempre più frequentemente anche persone anagraficamente più mature.
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Il concetto moderno del “posto fisso”: il “posto fisso” è un invidiabile beneficio inventato di recente
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Se il precariato pare essere contemporaneo, quanto è antico il suo contrario, ovvero il cosiddetto “posto fisso”? Sempre rimanendo in ambito nazionale e volendo continuare ad osservare l’evoluzione normativa, il celeberrimo “articolo 18” relativo al reintegro in caso di licenziamento era parte della L. 20 maggio 1970, n. 300 “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” noto anche come “Statuto dei lavoratori”. Analizzando il tema da un punto di vista meramente legislativo, gli anni trascorsi dall’apice della tutela per il lavoratore dipendente (1970) alla sua sconfessione con l’emanazione di norme sul lavoro atipico (1997), sono ormai quasi pari a quelli ulteriormente trascorsi sino ai giorni nostri. Ribadendo che i fenomeni sociali sono più potenti e più ampi delle norme dello Stato, va osservato che la tutela dei lavoratori subordinati fu centrale già nel secondo dopoguerra, con facile riferimento all’art. 1 della Costituzione della Repubblica Italiana promulgata nel 1948: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (…)”. La prima rivoluzione culturale effettivamente attuatasi riguardante i lavoratori nella nostra nazione va infine fatta risalire ad un periodo ancora antecedente, il ventennio fascista, e a provvedimenti quali la “Carta del lavoro”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale nel 1927.
L’idea, invero particolarmente apprezzabile, del posto di lavoro per tutti e garantito a vita è quindi un concetto moderno, creatosi e rafforzatosi in fasi economiche completamente diverse da quella attuale (durante la prima metà degli anni ’20 e negli anni ’60 l’Italia conobbe due tra i periodi più floridi del XX secolo) e mai esistito anteriormente. La portata ridotta appare ancora più evidente all’allargarsi dell’ottica geografica: se alcuni degli stati europei di cultura politica socialdemocratica hanno seguito nel corso del Novecento percorsi di tutela dei lavoratori simili a quello italiano, altri tra i Paesi più ricchi al mondo – fondati su una cultura tradizionalmente liberale come il Regno Unito o gli Stati Uniti – non hanno mai adottato nulla di comparabile, considerando che anche gli sforzi governativi per la creazione di posti di lavoro durante il New Deal furono slegati dalla forma contrattuale dei singoli rapporti di lavoro. Se poi si osserva la maggior parte della popolazione mondiale – che vive a tutt’oggi in condizioni economiche particolarmente svantaggiate rispetto agli Italiani – appare ancora più chiaro che il “posto fisso” è uno di quegli strumenti di welfare (un altro esempio potrebbe essere la pensione retribuita con importi comparabili allo stipendio) che alcuni Paesi europei sono riusciti a costruire nel secondo dopoguerra basandosi sulle esperienze sociali precedenti grazie ad un prolungato periodo di pace e benessere mai verificatosi in precedenza e che ora scricchiolano sotto il peso delle tensioni economiche, in particolare in quelle nazioni che hanno risposto peggio alla congiuntura avviatasi nel 2008.
Il precariato è dunque in realtà il tema lavorativo ricorrente di tutta l’umanità, mentre il “posto fisso” è un invidiabile beneficio inventato di recente, ad esclusiva disposizione di una piccola percentuale di popolazione mondiale particolarmente agiata e, dati ISTAT alla mano, in lenta ma costante contrazione nel nostro Paese.
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Crisi economica e scarsa tutela del lavoro: il tema focale è che nessuno ha tutelato il lavoro stesso
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Proseguendo con l’analisi economica del fenomeno e tornando a limitarci al contesto nazionale, i contratti atipici ed il relativo clamore mediatico sono uno degli aspetti del più ampio tema della stagnazione economica, in cui l’Italia giace da ormai quindici anni considerando che il valore del Prodotto Interno Lordo – con tutti i limiti che questo indicatore presenta – raggiunto nel 2007 non è più stato nemmeno avvicinato negli anni successivi4. In Italia, negli ultimi quindici anni (alla pubblicazione dell’articolo i più recenti valori disponibili risalgono al primo semestre 2022) si sono creati circa trecentocinquantamila posti di lavoro: prima ancora che sul fatto che oltre la metà degli stessi sia a termine, l’accento è da porre su come sono stati remunerati, dato che come appena descritto la ricchezza prodotta è stata non soltanto inferiore a quella degli anni precedenti, ma anche suddivisa tra più persone. Nello stesso periodo 2007-2022 il tasso di disoccupazione è passato dal 6% all’8%: la popolazione potenzialmente attiva è aumentata, i posti di lavoro anche ma in misura minore, il denaro da distribuire tra i lavoratori (e per esteso alla popolazione) è diminuito.
In un contesto di forti criticità derivanti da parametri squisitamente economici come quelli appena descritti, la scelta di addossare al legislatore la responsabilità di aver “creato” il precariato pare difficilmente sostenibile. Semmai la responsabilità di lungo periodo della classe dirigente – che governa e legifera – va ricercata nel non essere stata in grado di sostenere adeguatamente l’occupazione e l’economia dello Stato in generale. Nell’impossibilità (o incapacità) di offrire un’occupazione stabile, diffusa e adeguatamente remunerata, la dialettica politica si è soffermata sulle presunte cause – ovviamente esogene – da attribuire senza troppi sforzi di originalità alternativamente all’immigrazione o alla diversa maggioranza di qualche precedente legislatura rea di non aver tutelato i lavoratori, quando il tema focale è che nessuno ha tutelato il lavoro stesso.
Sull’aspetto – caro agli industriali italiani – della presunta incompatibilità tra il sostegno dell’occupazione e la tutela del posto di lavoro non ci dilungheremo, limitandoci a ribadire l’ovvietà che il benessere va in primo luogo creato, per poter poi valutare come salvaguardarlo. E che nell’irrealizzabile ipotesi di un equilibrio perfetto e costante tra popolazione attiva e posti di lavoro, a ben guardare, poco importerebbe la forma contrattuale.
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L’importanza del lifelong learning: occorre che tutti i lavoratori si mantengano aggiornati
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Vi è poi una peculiarità sociale, legata a doppio filo a quel citato benessere di cui la fortunata generazione nata tra il dopoguerra e gli anni Sessanta ha potuto beneficiare: se i loro figli sono disoccupati, prima ancora che precari, è innanzi tutto perché se lo possono permettere. Il benessere consente di studiare a lungo, di farlo tenendo conto delle proprie passioni, di ambire ad un lavoro di proprio interesse: tutti aspetti positivi, ben inteso. Tutti aspetti che, badando ai freddi dati, portano ad un quadro sconcertante: Unioncamere stima5 oltre 500.000 risorse che non saranno reperite nei prossimi cinque anni dalle imprese italiane, negli ambiti e percorsi di studio più disparati, inclusi i percorsi di formazione professionale. Nel medio periodo questa distanza tra potenziali lavoratori e datori tende ad assottigliarsi, con l’erosione della ricchezza accumulata dalla generazione precedente, il calo del benessere, la necessità di trovare un’occupazione e, di conseguenza, l’allineamento alle richieste del mercato. Ovviamente a spese di chi si trova nel mezzo di questo percorso, che non realizzerà quelle aspettative che in virtù dell’educazione (nel senso più ampio del termine) ricevuta gli pareva di poter raggiungere e subirà la competitività di chi, più giovane, si presenterà più competitivo, determinato e preparato all’appuntamento col mondo del lavoro.
Proprio da un’osservazione dell’estrema competitività del mercato del lavoro contemporaneo e di quello del prossimo futuro, giunge una possibile chiave di lettura per i lavoratori: “fissi”, precari o aspiranti che siano. Fortunatamente non esiste più l’attività svolta a vita, sempre nel medesimo ruolo e sempre uguale a sé stessa fino all’agognato raggiungimento dell’età pensionabile. I compiti svolti quest’oggi da un qualunque lavoratore tra dieci anni potrebbero infatti essere automatizzati o non interessare più a nessuno e poco conta in tal caso il “posto fisso”, se il datore di lavoro o addirittura l’intero settore scompaiono. Occorre che tutti i lavoratori – “fissi”, precari o aspiranti – si mantengano aggiornati, applichino il lifelong learning, si focalizzino sulle proprie abilità e le confrontino con quelle che potrebbero essere utili e competitive nel medio periodo.
Nell’attesa di tornare a fasi migliori del ciclo economico ed ai relativi benefici in termini di tutela dei lavoratori, la strategia personale può essere quella di differenziarsi arricchendo il proprio bagaglio. Se si disporrà di una preparazione e di una professionalità spendibili, in altri termini ricercate, ecco che gli spettri della disoccupazione e del precariato tenderanno a scomparire. È dunque necessario domandarsi oggi – per quando ci si troverà o ci si potrebbe trovare alla ricerca di un lavoro – su quali caratteristiche distintive si potrà contare per poter essere attraenti agli occhi di un potenziale datore. È in questo contesto che le passioni e le aspettative dei singoli tornano importanti, per indirizzarle correttamente ed assumere una propria caratterizzazione.
Non è mai troppo tardi per una nuova esperienza, di qualunque tipo: lunga o breve, vicina o lontana, che occupi tanto o poco tempo. Può essere preziosa per chiunque, dal precario perpetuo al titolare di un instabile “posto fisso”.
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(*) Ha conseguito un Master in Banca e finanza presso ABI, e si occupa di governance nel settore bancario.
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Foto: Unsplash.com
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Note:
1. Bastasin, Tra rigidità e precarietà, La Stampa, 3/3/2006.
2. Clericetti, La coperta corta dei posti di lavoro, La Repubblica, 13/10/2009.
3. http://dati.istat.it, ultimo accesso 24/9/2022.
4. http://data.worldbank.org, ultimo accesso 24/9/2022.
5. Unioncamere, Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine (2022-2026), Marzo 2022. : _
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