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Dal pensiero di Gianni Vattimo una proposta nel declino di miti e simboli.
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A Tempio Aperto non di rado si rimprovera: “bello quello che ci racconti sai…, ma se usi parole più semplici è meglio e se ci dici poi cosa possiamo farcene di queste amenità, ancora di più!”
Sarebbe da serrare tutti i battenti e stavolta per sempre: voltate pagina…, chiudetela subito se l’amico fidato o lo psicologo vi ha suggerito solo sorrisi olistici, canzoni o al più la chiromanzia. Tant’è che questo caparbio scriba, per alimentare le velate ma sempre benvenute critiche sapete cosa fa? Vi parla di…filosofia! O meglio, si insinua rischiosamente ai margini della scienza del pensiero, traendo occasione dalla recente dipartita del torinese (di mezzosangue calabro) Gian Teresio Vattimo.
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Tentiamo con buona pace dei puristi di parlarne sotto una luce quanto più sobria ed alla portata, una volta spenti gli abbaglianti “Gloria e Alleluja” innalzati in onore del Maestro da quegli stessi media che con godereccia morbosità se ne erano fino al giorno prima occupati per vicende appartenenti ad una sfera, quella privata, che non dovrebbe per nulla appartenerci.
Il vostro scrivano negli anni 80 del ‘900, quelli del riflusso, dell’edonismo reaganiano, del disimpegno dal sociale per intenderci, calcava da studentello giurista i corridoi di Palazzo Nuovo dell’Università di Torino, che furono crocevia di pensiero prediletto oltreché del celebre filosofo, anche di Norberto Bobbio, Massimo Salvadori, Guido Neppi Modona… Di questi studiosi si sentivano, sia pur molto rarefatte, le atmosfere colte e sobrie al tempo stesso, di un Sapere ricercato. Aule stracolme.
Il carattere principale di quell’ultimo avamposto dell’intellettualità non conformista, era che ci apparteneva, senza che ce lo sentissimo calato dall’alto. Entrava facilmente, nonostante che fuor d’ateneo “non fosse più aria” (trionfanti i venti della Milano da Bere e dello yuppismo) per chi di noi avesse avuto ancora voglia di respirarne. Questo era, con un semplicismo basico tanto caro ai Bradipo-pensatori, la migliore partenza della forte “debolezza” del pensiero vattimiano: esso lambiva pur incidendole come la picozza che il Nostro usava nelle sue scalate in montagna, le “realtà” dell’essere, oggetto di ogni indagine.
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Realtà al plurale appunto, avendo il Nostro ritenuto superata la concezione di una “modernità” contraddistinta da certi assiomi, i totem di pace, giustizia, progresso ed uguaglianza, tracciati e conclamati dalle idee del secolo dei lumi, dal romanticismo e positivismo ottocenteschi, nonché dai movimenti operai e studenteschi del novecento. Per ritrovarci invero immersi (e ammorbati), al più, nell’era della Tecnica, ovvero di un pensiero che “è” solo in quanto puro calcolo per un utile.
In breve, dalla costatazione di inadeguatezza di una tesi unitaria della “Storia”, intesa come legge universalmente vocata al “bene” collettivo, prendeva piede in Vattimo una visione, cosiddetta postmoderna dell'”essere”: composita, poliedrica, non riducibile a verità inconfutabile; bensì immersa in un divenire continuo a seconda del contesto spazio-tempo-luogo e, in particolare, del linguaggio utilizzato. L’uomo col suo “esserci”, con le proprie caducità e virtù, è irrimediabilmente al cospetto e protagonista di un panorama multiforme e cangiante del mondo sensibile, non solo deprivato da ogni orpello di principi fondanti e inderogabili, ma del tutto poroso, esposto ai continui mutamenti.
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Che farne orbene? Chiederesti, caro lettore, al Filosofo se fosse ancora in mezzo a noi! penserai che non ci resti che soccombere alla mercé del frullatore dei mille eventi e delle mille verità? Il rischio, certo, esiste e ce lo sentiamo addosso: il mondo ci appare globalizzante, pervasivo e destabilizza le nostre individualità non riproducibili; ma non è proprio questa la sorte che ci propone la risposta etica del Maestro.
La via possibile, secondo lui, è di ravvivare taluni ambiti concettuali intorpiditi dalla plurisecolare tradizione metafisico-dogmatica sopra ricordata: andare oltre la nietzschiana “morte di Dio”, per un nichilismo in positivo: aprendoci con metodo dialogico ad una visione che interpreti i perché ed i percome dei vari passaggi che hanno originato, determinato lo status quo, contrassegnandone le incoerenze ed errori; ma senza demonizzazioni, senza la pretesa di ri-costruire “Una” verità, poiché altrimenti si ricadrebbe nell’approccio dogmatico/indiscutibile su quel che è stata comunque opera dell’umano; ma si deve procedere elaborandone l’accettazione con la leggerezza necessaria a superarla, per portarla con sé verso il suo travolgimento.
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Quindi un autentico rovesciamento dei paradigmi tipici del pensiero cosiddetto “forte”, (esempio da “bradipo”: tanto Dio e/o Marx hanno imposto, così una data azione va etichettata e giudicata) che lo avversava a tanti altri pensatori della tradizione filosofica contemporanea.
La memoria; la presa in carico di responsabilità e analisi dei vissuti per non incorrere di nuovo nelle tragedie del passato; il riconoscimento dell’altro, la pìetas, ovvero il prendersi cura caritatevole in difesa dei diritti del debole e del diverso; la forza nel rispetto delle idee, da qualunque parte giungano: questi gli ingredienti che il Nostro ci offriva alla elaborazione di un modo di pensare politico (ed anche religioso), rivolto innanzitutto alla élite progressista, proprio nel momento in cui essa, sui salotti per pochi comodamente affondata (in tutti i sensi), cominciava a smarrire ogni riferimento con la società.
Gian Teresio Vattimo lascia spazio a mille riflessioni e il nostro Gian Michele ne scrive alcune tra la pietas necessaria e la ricerca della propria identità in un mondo globalizzato, rielaborando i vissuti. Indro Montanelli diceva;”Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente.”