di Giuseppe Rissone pixabay.com
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Una storia d’amore come tante ma in realtà unica come ogni storia d’amore
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Strappava le erbacce dall’unica pianta, un’enorme ortensia dai fiori color fucsia, puntinati di bianco, come il viso di un bimbo, alla sua prima malattia infettiva. L’ortensia era sistemata vicino alla lapide; la scritta rimaneva spezzata dalle foglie, che a volte il vento spostava, nascondendo ora una lettera, ora un’altra, ora una o più sillabe. Di molte erbacce, lei avrebbe saputo il nome; e non gli sarebbe piaciuto che si dicesse erbacce.
Erbacce, perché non ti servono? Perché, non ti piacciono o perché t’intralciano?
Pietro, era sicuro, di sentirselo sussurrare all’orecchio. Ma non poteva fare diversamente, almeno ripulire ogni tanto. Le erbacce si raggruppavano in una sorta di ciuffo uniforme, Pietro si accaniva contro quelle presenze, scavando intorno con le dita, e piegandosi tutto su un fianco. Dentro, la terra era calda, sempre più calda, inseguiva con le dita le radici che si dividevano, scendevano, sempre più sottili. Ne segava con le unghie gli ultimi tratti, le tirava su. Le guardava attentamente, belle, con una loro dignità, nude come un fuscello, inizialmente color avorio, poi di un bianco candido e splendente.
Pietro si recava tutte le mattine al cimitero, non c’era stagione o condizione meteorologica che potesse cambiare il suo programma, era solito portare un mazzo di fiori speciali, per lo più gonfi di petali riccioluti, sceglieva quelli di un bianco cremoso, piccolini, di un odore amarognolo, corti di gambo. Tutte le volte che leggeva il nome della moglie, era un recupero di memorie e di felicità, come se la storia della sua vita fosse un libro scritto in una sola pagina. Il ricordo di Nora, addosso, scolpito, oltre la sua esistenza.
Quella morte l’aveva come in parte sradicato, non sentiva nutrimento, ma nello stesso tempo il fatto che Nora gli procurasse dolcissimi ricordi, gli permetteva di sentirsi sostenuto dopo la sua improvvisa dipartita. Per raggiungere il cimitero, Pietro, inforcava tutte le mattine la sua vecchia bicicletta nera, pochi minuti, poi percorreva a piedi il lungo viale, incorniciato alle due estremità da una lunga fila di pini. I pini del viale, se tirava vento, si muovevano tutti allo stesso modo, nello stesso verso, dando una specie di risposta collettiva, come se fossero un unico elemento. A Pietro, questa immagine, dava l’effetto di un albero solo, impassibile, nutrito dalla stessa linfa, percosso da un’uguale raffica di vento, accumulatore di ricordi.
Guardava quell’enorme distesa di terra, dove le famiglie del luogo hanno voluto ricordare ai posteri la loro presenza; cappelle, una chiesa monumentale, simboli spenti, marmorei, Pietro trovava tutto questo esagerato, poco cristiano…
La stagione estiva era finita da un pezzo, Pietro andava avanti tra questi ricordi, come avanzi, come addii, come la provvisorietà. Le strisce di marmo, alcune erette verso il cielo, non avevano sempre tutte le loro parti illuminate; il sole albeggiante le toccava, creando ombre, toccando e schiarendo le statue.
Con uno straccio puliva la lapide: Nora Casaretto 1906 – 1969
La sua compagna, forse per troppi pochi anni, andata via troppo presto. Pietro, con un colpo leggero ai reni, si tirava su con un lieve barcollio. Si guardava intorno, non c’era nessuno; le tombe erano abbracciate dai fiori, tenute con cura. Nora, aveva più volte espresso il desiderio, di non avere fiori per la sua sepoltura, solo una rosa bianca, avrebbe però tanto desiderato un orchestrina che suonasse durante il corteo funebre. Pietro, non dimenticò questo desiderio, il giorno del funerale, alcuni musici della banda cittadina, intonarono dietro al feretro una vecchia canzoncina jazz, molto amata da Nora.
Già il giorno in cui Nora morì; nella stanza da letto, la gente abbassava le palpebre, faceva ala. Pietro ricordava i loro volti – un po’ fasulli, tremanti – perfettamente immobili, a tratti inutili e meschini, quantunque pervasi di devozione; e anche, sì, di miraggio. Ricordava la camera, così pateticamente spoglia, così pura, dove tutto il diversivo, tutto il capriccio, tutto il lusso, veniva dalla luce del sole.
Pietro era seduto, ad un lato del letto. La moglie aveva le labbra atteggiate in un sorriso, che egli conosceva bene. Sul petto la rosa bianca. I capelli ben pettinati. Pietro, sollecitato dai figli, riuscì a salutare, stringendo ad ognuno la mano. Nuovamente si sistemò ad un lato del letto. Guardò i piedi della moglie, leggermente alzati e ben uniti. Intatta la suola delle scarpe, grandi, molto più grandi di quelle che lei usava portare, forse comprate la mattina, nere, di pelle lucida. Il fazzoletto s’inzuppava di lacrime e di saliva. Gli cadde di mano. La figlia gliene porse uno pulito.
Erano mesi, che Pietro, di nascosto, piangeva; Nora, infatti, era ammalata da molto tempo, il medico veniva tutti i giorni, e man mano diminuiva il suo tempo al capezzale, segno evidente dell’aggravarsi di Nora. Un professore di Genova fu chiamato a consulto, ma il responso non cambiò. Un piccolo pulsante bianco, collegato ad un campanello, collocato in corridoio, fu sistemato da Pietro vicino al letto, in modo che Nora potesse chiamare in ogni momento. Era un segno, anche questo del suo amore per la moglie.
Caterina – bisbigliò Pietro – Caterina, sottoterra, vero? Murata no.
La figlia lo guardò, vagamente inquieta, poi, rispose: Ma certo papà, ma certo e le venne naturale d’abbozzare un sorriso d’assenso. Quasi nessuno, al momento, era rimasto nella stanza. Molte voci sommesse, provenivano dal corridoio, si alternavano a quella della figlia.
Oh, non è questo il dolore. Il vero dolore arriverà dopo pensò Pietro, nella solitudine della camera.
Entrò una donna, un ex collega di Nora, depose un mazzetto di fiori ai piedi del letto, e senza dire una parola se ne andò. Adesso Caterina parlava a bassa voce con alcune persone.
Accordi per il funerale. Senza dubbio pensò Sergio, certo di non conoscere quelle voci.
Franco, il figlio più grande, entrò, e mise dei bigliettini sul comò. Pietro, rimase solo con i figli; in cucina, una nuora armeggiava tra i fornelli per la cena.
Anche in un giorno simile! disse infastidito, Pietro.
Caterina mosse il capo, blandamente disapprovando, in lei il dolore aveva un che d’assuefatto, una pacatezza sulla quale gli alitava una superiore, ardente rassegnazione. I funerali avvennero il pomeriggio successivo, direttamente al cimitero, Nora si era sempre professata atea. La sera, Pietro, con le labbra gonfie, le palpebre arrossate, il viso tumefatto, imbruttito dalla stanchezza, appena fu solo, si buttò sul letto e si addormentò. Sognò il primo incontro con Nora: la conobbe nell’atrio del Municipio di Levanto. Se la trovò accanto che leggeva gli avvisi affissi in bacheca. Era leggermente più bassa di lui, teneva la testa ben eretta, sotto il braccio portava una grossa cartellina. Pietro, la guardò con insistenza. Lei gli sorrise.
Pietro continuò a fissarla. Una dolcezza impaurita, lo colse. Era la timidezza. Era l’amore. La rivide pochi giorni dopo, era mezzogiorno, avevano varcato quasi insieme il portone del Municipio. Da un finestrone, una luce morbida cadeva sullo scalone, una luce che li avrebbe accompagnati lungo la loro storia d’amore.
Pietro la invitò a prendere un caffè, scelse quello di fronte al palazzo comunale. Ci tornarono alcune settimane dopo, come coppia, il rossore avvampava sui loro volti, Pietro, posò sul tavolino un piccolo pacchettino rettangolare in carta chiara e ben legato. Nora, lo aprì, un libro, un romanzo di Luigi Pirandello. Il libro rimase in mezzo a loro, la luce si raccoglieva sulla copertina, sulle tazzine di caffè, lasciando i loro volti nell’ombra, complice del loro amore.
Si sposarono, dopo appena un anno di fidanzamento. Lui non disponeva che del suo lavoro, e di una piccolissima eredità lasciata dal padre; lei lavorava come praticante presso uno studio notarile. Tutto questo bastò e quando non fu sufficiente fu il loro forte amore a colmare le difficoltà…
Le Microstorie ritorna mercoledì 5 gennaio
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